The passenger

Nel suo libro Italian Ways Tim Parks descrive la cultura italiana analizzando il nostro comportamento sui treni. Mi sono così resa conto di quanti aspetti tipici della nostra cultura siano visibili in un semplice viaggio, e ho iniziato a rendermi conto degli elementi che mi caratterizzano come italiana, e che dopo molti anni all’estero ancora sono rimasti immutati.

Uno degli aspetti che più turba Parks nelle sue trasferte quotidiane è l’abitudine tutta italiana di chiacchierare con i compagni di scompartimento. Lui vorrebbe usare il tempo trascorso in viaggio a leggere, si è preso un buon libro e non vede l’ora di aprirlo… e invece c’è sempre qualcuno pronto a disturbarlo perché in Italia, a differenza di molti Paesi stranieri, solo i treni ad alta velocità hanno le silent coach, le carrozze in cui è vietato parlare e fare rumore. Ciò è semplicemente legato alla nostra cultura. Sui treni ci piace raccontare le nostre storie non per farci gli affari altrui o interrompere la lettura dei nostri compagni di viaggio, ma perchè per noi raccontare la nostra vita sul treno è come andare dallo psicologo: ci rasserena, a volte ci aiuta persino a trovare le soluzioni dei nostri problemi. La bellezza di tutto ciò sta nel fatto che sappiamo che i nostri segreti, magari taciuti da anni, non saranno svelati o magari usati contro di noi dai nostri interlocutori. Sappiamo che non saremo giudicati, e se anche fosse, non ne subiremo mai le conseguenze. In sostanza, il treno è il luogo ideale per raccontare la propria vita, dettagli scabrosi e inquietanti inclusi. Un altro aspetto positivo del racconto sul treno è che è parziale e cioè tipicamente finirà prima di stufarci irrimediabilmente. Così restiamo a metà storia e possiamo immaginare sviluppi incredibili. Non è un caso che persino il programma di Gianluca Nicoletti per Radio24 “Il treno va” racconti storie usando il leitmotiv del treno: il treno predispone al racconto.

L’aspetto divertente delle questioni culturali è la reciprocità. Infatti, così come Parks non sopporta il dover rispondere alle domande invadenti dei suoi compagni di viaggio, uno dei lati negativi del viaggiare su e giù per l’isola era per me proprio il non poter conversare con i miei vicini. Nei tre anni in cui ho vissuto a Exeter ho viaggiato spesso in treno: ogni sei settimane circa andavo a Newcastle percorrendo circa seicento chilometri all’andata e altrettanti al ritorno. Per placare almeno in parte i sensi di colpa per l’essere in un luogo diverso dalla biblioteca del mio dipartimento, mi portavo solitamente dietro il mio fidato computer portatile, almeno due libri cartacei e centinaia di pdf. Le prime quattro ore scorrevano abbastanza rapidamente tra lo studio, il tentativo di scrittura, l’osservazione del meraviglioso panorama del Somerset e l’analisi dei comportamenti dei miei compagni di viaggio. Poi subentrava la noia: mi compravo un caffè pessimo che ustionava istantaneamente lingua ed esofago e iniziavo a guardarmi intorno della speranza di riuscire a fare due parole con qualcuno. Però mi è quasi sempre andata male: gli unici suoni che sentivo intorno a me erano le telefonate di lavoro e l’annuncio che ricordava di prendere le proprie valigie prima di lasciare il treno. Nient’altro.

Solo una volta sono riuscita a scambiare due parole con una compagna di viaggio: era una distinta signora scozzese sulla settantina che ha deciso di raccontarmi la storia della sua vita nel tratto tra York e Sheffield. Così ho scoperto che da giovane faceva l’infermiera, che ha viaggiato molto, divorziato da un certo numero di mariti e che stava andando al funerale di sua zia. Spero che la conversazione l’abbia aiutata a sfogarsi un pochino; io posso dire di aver apprezzato il suo accento e il suo humour, e di essermi sentita fortunata per essere stata scelta come depositaria di un pezzetto della sua storia.

Ma non sono l’unica ad aver sempre molto apprezzato i racconti sul treno. Quando insegnavo italiano all’università venivo spesso invitata alla cena con i ragazzi appena tornati dall’anno all’estero. Appena scoperto che i treni in Italia hanno prezzi molto più contenuti rispetto al resto del continente (sì, sul serio) si sbizzarrivano in viaggi lunghissimi su e giù per la penisola. Ecco, uno degli aspetti preferiti di questi viaggi erano le conversazioni in treno poiché, appena i loro compagni di viaggio scoprivano di avere tra di loro uno studente inglese, decidevano di depositare nel malcapitato – che a quel punto non poteva più scappare dallo scompartimento – parte del loro sapere. Così i miei studenti hanno scoperto modi di dire e parolacce, si sono sbarazzati del proprio accento inglese (ovviamente sostituito dai nostri accenti regionali), hanno capito come si cucina il ragù e ottenuto i nomi dei migliori ristoranti di mezza Italia. Nessuno di loro si è mai lamentato di queste conversazioni. Al contrario, mi hanno raccontato estasiati l’entusiasmo dei loro compagni di viaggio italiani e l’incredibile voglia di “spiegare l’Italia” nello spazio di un viaggio.

Molti anni fa in Italia anche io ho avuto un’esperienza simile a quelle dei miei studenti. In una sera di metà gennaio ho preso l’ultimo treno per tornare a casa dall’università e, dato che gli scompartimenti sembravano essere tutti pieni, sono stata ospitata nelle cuccette da due coniugi calabresi che erano venuti a Torino a trovare la figlia e stavano tornando a casa in Calabria. Mi hanno raccontato della vita a Torino negli anni ’70 e del lavoro in FIAT e posso garantirvi che il loro racconto era molto più vivido delle immagini che talvolta vediamo nei film e nei documentari. Dopo mezzoretta circa hanno estratto da uno zaino due panini ultra-farciti di dimensioni incredibili, e mi hanno chiesto “Vuole favorire?”. Io sarei scesa dopo un quarto d’ora, loro avrebbero raggiunto la loro destinazione solo il mattino seguente. Quella richiesta così cordiale mi è sembrata un vero dono. Forse Parks al posto mio avrebbe scartato la cuccetta e continuato a cercare uno scompartimento tutto per sé. Peccato.