Il mio sguardo critico

Da qualche tempo il mio blog ha alcuni lettori affezionati che commentano volentieri e mi lasciano le proprie impressioni. Non posso che esserne contenta perché adoro le discussioni e se non volessi sapere l’opinione altrui certamente non scriverei un blog. Tuttavia, mi è rimasta la paura di essere offensiva e mi è stato talvolta detto che non sono obiettiva o che sono troppo critica nei confronti dei Paesi Bassi, così ho deciso di fare un post in cui, per dirla in modo elegante, spiego la mia metodologia.

La cosa curiosa è la direzione delle critiche. Mi spiego meglio: cerco sempre di fare post piuttosto equilibrati e di mostrare quelli che a mio parere sono sia i lati negativi che quelli positivi di un luogo o di una cultura. In un mio vecchio post, per esempio, dicevo che gli olandesi hanno perlopiù uno stile di scrittura semplice e essenziale, e di conseguenza fanno spesso fatica a capire metafore e pensieri astratti e fumosi. Nello stesso post ironizzavo sulla conoscenza dell’inglese degli italiani. Entrambe le dichiarazioni non sono vere al 100%: esistono ovviamente olandesi che amano scrivere periodi lunghissimi e italiani che parlano benissimo l’inglese. Per quanto mi riguarda, esistono anche olandesi che non sanno l’inglese (ho insegnato per molti anni inglese qui, fidatevi che ce ne sono tanti) e italiani che ignorano cosa sia una metafora. Ebbene, mentre gli italiani erano tutti pronti ad ammettere le proprie scarse doti linguistiche, alcuni olandesi si sono offesi e mi hanno ribadito le loro abilità narrative. Che poi la semplicità è un qualcosa di bellissimo, e scrivere sempre in modo incomprensibile come facciamo noi italiani è una condanna, ma vabbè. Altre volte, soprattutto nei gruppi Facebook di expat italiani, ho notato che ad arrabbiarsi per la minima osservazione non propriamente positiva sul Paese estero in cui vivono sono proprio gli italiani, che invece applaudono ogni critica spietata nei confronti dell’Italia. Non so se la causa di questo atteggiamento siano i secoli di dominazioni in Italia, ma certo siamo molto servili nei confronti degli stranieri.

Per scongiurare problemi futuri vorrei spiegare qui il mio approccio, e per farlo vorrei partire da un aneddoto. Alcuni anni fa ho tenuto un corso di letteratura in inglese presso una università americana qui nei Paesi Bassi. Prima dell’esame finale gli studenti dovevano presentarmi un elaborato che doveva essere una “analisi critica”. Una studentessa mi ha chiesto dubbiosa: “Ma io voglio fare il mio lavoro su una femminista che stimo moltissimo. Come faccio se non trovo nulla di negativo su di lei?”. Non aveva capito che l’essere critici significa analizzare fatti e situazioni cercando di mantenere uno sguardo oggettivo, e questo è l’atteggiamento che cerco di avere. Lo faccio sempre, ogni giorno, in ogni ambito. Analizzo tutto cercando aspetti positivi e altri negativi. Avete presente Lucy dei Peanuts? Ecco, sono io. Ho imparato a farlo all’università dal mio amato prof di filosofia, che ogni giorno a lezione ci invitava a riflettere sui fatti di cronaca per scoprire un punto di vista nuovo, e non ho intenzione di smettere.

Da sempre sostengo sia indispensabile avere uno sguardo critico nei confronti del Paese in cui viviamo, sia esso l’Italia o un Paese estero, e questo atteggiamento è ancora più necessario se nei confronti di quel posto è scoccata la scintilla. Mi spiego meglio. All’università avevamo tutti una lingua e una cultura del cuore, e la mia era quella della perfida Albione. Non so bene perché sia andata così, credo per colpa di David Bowie, ma non saprei dire. Alcune mie compagne di corso invece dicevano di amare la Francia perché i ragazzi francesi sono tutti belli (non so se sia vero, ma una mia amica aveva una solida teoria al riguardo) altre la Spagna perché là tutti ballano in continuazione e si ubriacano di sangria. L’amore è irrazionale, si sa. A un certo punto però è diventato necessario andare sul posto a toglierci le fette di prosciutto da davanti agli occhi.

Così in Inghilterra ho scoperto luoghi in cui la depressione è così visibile che si respira nell’aria, e sembra aver contaminato non solo le città ma soprattutto i cuori delle persone. Ho lavorato come interprete per i servizi sociali, e ho visto cose che sfuggono al turista che si fa la foto davanti a Buckingham Palace. Ho visto persone accusate di furti che non avevano commesso, immigrati truffati dai datori di lavoro che sono finiti a non saper come sopravvivere, giovani che spendevano in droghe e alcol l’intero ammontare del proprio sussidio di disoccupazione e padroni di casa che stipavano gli studenti stranieri in case fredde e dai muri ammuffiti. Ho conosciuto professori universitari fantastici e altri crudeli, incontrato studenti timidi e gentili e altri viziati che non avevano mai viaggiato in seconda classe in vita loro. Ho camminato lungo scogliere mozzafiato e in posti di una bruttezza indescrivibile, speso un capitale per viaggiare in treni costosi e inefficienti e accelerato il passo la sera per evitare gruppi di ubriachi molto fastidiosi.

Il mio amore per la lingua è rimasto, quello per il Paese è cambiato ma non se n’è andato. Se pensate a una storia d’amore vi verrà facile capire cosa intendo. Prima c’è la fase in cui vediamo il principe azzurro e poi quella in cui arrivano anche i suoi difetti, che lo fanno scendere dal cavallo e lo rendono più reale. Non so bene come sia andata davvero con Biancaneve, ma io non mi sarei lasciata ammaliare da un bacio e un conto in banca prestigioso. Solo dopo aver conosciuto tutti i difetti del principe – anche i più disgustosi – avrei deciso se stare con lui.

Mi è stato detto che ho un punto di vista un po’ negativo nei confronti dei Paesi Bassi, e se devo ammettere che la scintilla non è mai scoccata perché non ho davvero scelto in modo del tutto libero di vivere qui (ho seguito il lavoro del mio partner), va anche detto che non nego di scorgere aspetti positivi nel Paese. Però questi non mi impediscono di guardare anche gli altri, quelli negativi. Di base, amo soffermarmi sull’attrito che fanno la mia cultura e quella olandese quando si incontrano: una – la mia – fondata su bellezza e edonismo, l’altra incentrata su efficienza e frugalità. Capirete bene che il risultato di questo sfregamento sono scintille continue, e che il fenomeno è troppo interessante per non essere descritto.

Confesso che invidio moltissimo gli italiani all’estero che postano foto di tulipani e dicono di aver trovato il proprio paradiso in terra perché “qui fa meno caldo che in Italia in estate”. Sì, l’ho letto veramente una volta su Facebook. Mi piacerebbe svegliarmi, vedere il sole che brilla (ogni tanto capita) e saltellare nei prati verdi come fa la Pimpa. Però non riesco a farlo. Non riesco a fare a meno di pensare che idealizzare un Paese e ignorare tutti i suoi lati oscuri sia ammissibile solo nei primi anni, quando effettivamente non si conosce bene la lingua e non si è in grado di osservare la realtà. Poi dopo, dobbiamo necessariamente essere in grado di vedere bene cosa ci circonda. Per capire cosa intendo pensate al sonetto 130 di Shakespeare: paragonare gli occhi della propria amata al sole e le sue labbra al corallo è offensivo nei suoi confronti. È molto meglio amarla per quello che è veramente.

La cultura al supermercato

Credo che la cultura di un Paese sia visibile davvero ovunque, anche nei luoghi che crediamo uguali ovunque andiamo, come nei supermercati. Fresca di una vacanza di una settimana in Austria vorrei fare qui un breve resoconto delle mie osservazioni vacanziere, ma prima devo fare una piccola precisazione.

Solitamente mi arrabbio quando gli stranieri vanno in vacanza in Italia due settimane in un paesino abitato perlopiù da pensionati e poi mi dicono: “Certo che voi italiani non lavorate proprio! Tutto il giorno al bar. Questa è la dolce vita”. Allo stesso modo evito come la peste i turisti italiani che dopo una settimana ad Amsterdam cercano di spiegarmi l’Olanda sul volo di ritorno. Di solito quando ne trovo uno seduto vicino a me fingo un attacco di narcolessia o mi nascondo dietro a un libro. Le mie osservazioni non pretendono di essere qualcosa di profondo e assoluto, perché solo un conoscitore di quei posti potrebbe farlo, e io scelgo le mete delle mie vacanze spinta solo da curiosità e dalla lettura di una guida turistica. Non aspettatevi una analisi della grande distribuzione di un certo Paese, perché in vacanza ho di meglio da fare che andare al supermercato. Prendete le mie osservazioni per ciò che sono: curiosità di una expat in vacanza.

Le dimensioni

Il primo aspetto che mi ha sempre colpita in un supermercato sono le dimensioni delle confezioni di certi prodotti. Per esempio, da appassionata di torte quando vivevo in Inghilterra apprezzavo molto i blocchi di burro da mezzo chilo in vendita al supermercato. Quando mi sono trasferita in Olanda ho notato bottiglie di olio per friggere da 3 litri, e ho pensato che questo Paese potesse avere molto da offrire dal punto di vista culinario.

Oltre alle dimensioni dei prodotti è molto indicativo lo spazio riservato su un certo scaffale e la varietà. Per fare un esempio, mi fa sempre sorridere l’enorme scelta di detergenti per l’ambiente disponibili per la massaia italiana che desidera sterminare il più piccolo batterio della sua casa perché la varietà di tipi diversi di candeggina in commercio nei Paesi nordici è decisamente minore. Si trovano invece molti prodotti per il bucato ma restano comunque alcune lacune, così anche se voi immaginate di trovare un turbinio di caciotte e salumi nelle valigie degli immigrati, ecco nella mia ci sono spesso sapone di marsiglia, buste di plastica e foglietti antitarme.

E infine, anche le dimensioni del supermercato vero e proprio sono totalmente diverse. Sia in Inghilterra che in Italia sono andata spesso in supermercati con una enorme quantità diversa di prodotti e così grandi da mettere a dura prova i piedi dei clienti. La prima reazione davanti a così tanta scelta è di entusiasmo, poi arriva la stanchezza e la frustrazione perché trovare cosa cerchiamo e uscire dal supermercato in tempi brevi è in certi casi davvero una sfida. Nei Paesi Bassi non ho mai trovato supermercati così grossi e forniti e sebbene fare la spesa sia molto più rapido, è anche incredibilmente più monotono.

Gente che fa cose

A volte le osservazioni di noi italiani all’estero sono curiose. Ecco cosa ha detto la settimana scorsa il mio compagno al ritorno da una visita in un supermercato austriaco: “Belli i supermermercati qui! C’è gente che fa cose! Che so… ci sono le commesse ai banchi della carne e del formaggio… tu chiedi e loro ti preparano cosa vuoi. E poi ci sono casse con commesse che ti parlano insieme, persone che parlano tra di loro! Bello”.

In Olanda non esistono commesse ai banchi perché ciò sarebbe poco efficiente: tutti i prodotti sono preconfezionati in vaschette imballate in abbondante plastica. Non ci sono quasi nemmeno più commesse alle casse perché queste sono quasi tutte automatiche. In questo modo c’è meno personale e grande rapidità, e il tutto è efficient (cioè permette di guadagnare di più). Negli ultimi anni le casse automatiche sono comparse pure nei negozi di prodotti per la cura della persona, poi nei cinema, e ora persino in farmacia è possibile ritirare i propri medicinali senza alcun tipo di interazione con il resto del mondo. Il bello è che ci sono poche code, il brutto è che tutto ciò è piuttosto arido. Ma questo è il punto di vista di una italiana nata in un Paese che con l’efficienza, per fortuna, ha poco a che fare.

Vive la France

Per molti anni la Francia non è stata presente nella lista dei Paesi che avrei voluto visitare. C’era mezzo mondo, ma la Francia no. La ragione era sciocca ma comprensibile: la mia prof di francese del liceo, che è riuscita con la sua arroganza e il suo bullismo a farmi odiare la Francia, la sua lingua e pure i suoi abitanti. Ma negli ultimi anni mi sono trovata a frequentarla molto, e ho capito che l’odio era davvero mal riposto perché c’è una ragione se i francesi sono spesso definiti nostri “cugini”. So che forse non vedete molta somiglianza perché abitate in Italia, ma la sottoscritta dopo 15 anni tra Inghilterra e Olanda non può fare a meno di sentirsi un pochino a casa in Francia pur non parlando bene la lingua.

Questa somiglianza è visibile persino nei supermercati. Il primo aha moment è stato quando ho visto in un Leclerc cassette di albicocche con sopra l’indicazione “per fare la marmellata”. Cioè, i francesi fanno la marmellata in casa?! Oramai sono abituata all’efficienza olandese, per cui ogni aspetto della vita civile è predisposto in modo da essere frugale e proficuo. E i francesi impiegano tempo e energia per fare qualcosa che può essere efficientemente comprato al supermercato? Nei Paesi Bassi il cibo non è piacere o cultura ma carburante: non conta il sapore o la varietà, conta solo la sua abilità di fornirci energia per poter sopravvivere e soprattutto lavorare. Per questa ragione il pranzo olandese è costituito tutti i giorni – sì, anche nel weekend – da un panino con una fetta di formaggio, da consumarsi spesso e volentieri camminando. L’idea di “sprecare” tempo per fare la marmellata mi pare meravigliosamente inefficiente e mi ha fatta sorridere.

La seconda bella sorpresa è stata alle casse. Mi sono silenziosamente messa in coda con una baguette e una bottiglia di acqua in mano quando una signora mi ha fatto segno di passare davanti, e ha persino chiesto alla signora davanti a lei, che aveva comprato cibo per un reggimento, di farmi passare. Qui in Olanda non mi è mai successo, nemmeno quando ero incinta al nono mese. È vero che grazie alle casse automatiche le code sono poche, ma è anche vero che nei pochi negozi in cui esistono ancora vengono rispettate religiosamente. Sono rimasta a bocca aperta e mi sono sentita un pochino a casa, un concetto che per un expat è difficile da spiegare.

Senza peli sulla lingua

Nella mia esperienza da prima studentessa e poi insegnante di italiano e inglese ho avuto molto a che fare con metodi per l’apprendimento delle lingue. Quando poi sono andata a vivere all’estero ho avuto modo di paragonare la lingua e i dialoghi proposti dai libri con la “vera” lingua parlata all’estero, e ho capito perché il mio lettore di lingua inglese all’università ci diceva: “Voi sapete disquisire di letteratura ma non sareste mai in grado di seguire una conversazione tra i miei amici al pub”. Non esistevano ancora Netflix e Youtube e avevamo tutti una enorme lacuna: il linguaggio colloquiale.

Il primo problema di questo tipo di comunicazione è il suo retaggio. Infatti, molti lo associano con la lingua di strada o il modo di parlare di certi gruppi di persone dalla vita poco cristallina. Nella realtà è usata persino dagli altolocati in situazioni familiari ed è semplicemente un linguaggio a volte impastato di parole regionali, parole accorciate per comodità e modi di dire intrisi di cultura locale. Come quasi tutti gli studenti ho avuto modo di avvicinarmi a questo fantastico mondo solo all’estero e poi, da insegnante, l’ho cercato invano nei vari libri di italiano per stranieri in commercio. La maggior parte di questi corsi propone un linguaggio rigido e stantio, e se sotto un certo punto di vista capisco chi scrive i libri – la lingua è così complessa, come è possibile rendere anche solo un briciolo della sua varietà in un libro – dall’altra non capisco come mai il linguaggio colloquiale non entri nemmeno nei libri per i livelli più avanzati. Il risultato di questo sistema è evidente: dopo molti anni gli studenti ancora non riescono a capire alcun film senza i sottotitoli, hanno difficoltà sui social e parlano una lingua molto lontana dalla realtà.

Ma il problema non è limitato al linguaggio colloquiale. Un’altra lacuna sono gli insulti e le parolacce, che non vengono quasi mai insegnati agli studenti. Mi spiego meglio perché ora starete pensando che sono una personcina ben poco raffinata e devo mettere le mani avanti. La vita di ogni giorno è costellata di una enorme varietà di tipi diversi di interazioni in cui sono spesso coinvolte le emozioni. Per quanto educati possiamo essere, quando un tizio in bicicletta ci investe sulle strisce pedonali la nostra reazione – a meno di essere Ned Flanders – è raramente “acciderbolina”. Eppure i libri hanno raramente una sezione dedicata all’argomento. A volte penso che questi metodi intendano creare la figura mitologica del “buon straniero”, che sa parlare con il medico e leggere il giornale, ma sorride e resta in silenzio quando insultato perché non ha capito o perché non sa rispondere a tono. Ora non dico che lo straniero debba essere incattivito e predisposto all’insulto come Calibano – in fin dei conti a differenza del personaggio di Shakespeare noi ci siamo auto colonizzati – però deve essere in grado di esprimere tutte le sue emozioni, non solo quelle di gioia e gratitudine.

Ci sono varie ragioni per cui ritengo gli insulti debbano entrare nei programmi dei corsi di lingua. Innanzitutto, indipendentemente dalle nostre abitudini personali, queste parole fanno parte di ogni lingua, ed è assurdo imparare solo ciò “quello che serve” secondo l’opinione insindacabile dell’insegnante o di chi ha preparato un corso. In secondo luogo, anche se noi siamo tanto carini e certe cose non le diciamo, se non siamo nemmeno in grado di capirle non potremo capire che una persona ci sta insultando e difenderci. E il punto non è solo capire che una parola è un insulto, ma dovremmo anche sapere cosa significa e se è grave o meno in modo da poter reagire nel modo più opportuno.

Ovviamente mentre una volta le nostre uniche fonti di informazioni linguistiche erano gli insegnanti e i libri, ora nuotiamo in un mare di parole, ma il ruolo dell’insegnante (o del nativo, anche se non insegnante) non è meno importante. Perché proprio perché le informazioni sono tante, persino troppe, è difficile districarsi tra sfumature di significato, registri e accenti regionali. Per esempio, ho imparato molti insulti in inglese da John Bishop, uno stand-up comedian molto noto in Inghilterra, solo che lui è di Liverpool e ribadisce la sua provenienza quasi all’inizio di ogni show. Capite bene che ascoltare un’italiana che passa da un accento abbastanza standard imparato sui libri della Oxford University Press a espressioni lower-class in accento estremo farebbe piuttosto ridere. E poi tradurre letteralmente gli insulti non funziona perché cambiano le circostanze che rendono l’uso di certe espressioni accettabili: ho notato che talvolta alcune parole o modi di dire ampiamente usati in Italia – ehm, siamo personcine perbene ma non abbiamo peli sulla lingua – sono meno accettabili in altri Paesi. È ovvio che il linguaggio colloquiale si impara sul posto, ma sarebbe bello non dover passare attraverso certe figuracce che sono toccate alla sottoscritta. È per questa ragione che servirebbe in ogni corso di lingua una parte dedicata a insulti e linguaggio colloquiale così da poter guidare almeno un po’ lo studente alla scoperta di questo mondo meraviglioso e aprirgli davvero tutte le porte della nuova lingua.

I limiti delle mie lingue

Quando in Italia una ragazza dice in giro di voler studiare le lingue straniere il commento più comune che riceve è sempre lo stesso: “Sì, brava, ma scegli una lingua molto richiesta dalle aziende qui in zona, tipo il cinese”. Poco contano le passioni, posto fisso über alles. Chiaramente loro non hanno alcuna colpa a fare questo tipo di ragionamenti, e non capiscono che una lingua è un mondo che attira alcune persone – come la sottoscritta – come la vetrina di una pasticceria. Non sono gli aspetti concreti legati al nostro futuro lavorativo a spingerci a studiare lingue straniere (ehm, e come potrebbero) ma quelli astratti.

Poi però, una volta addentrata nelle questioni teoriche, le mie preferite, ho scoperto la famosa frase di Wittgenstein “I limiti della mia lingua sono i limiti del mio mondo” e ho avuto la conferma che le lingue erano la mia passione perché tollero poco i limiti. Wittgenstein riteneva che non sia possibile concepire un concetto se la nostra lingua non ha una parola adatta a esprimerlo. Come traduttrice non mi è difficile vedere cosa intendeva dire: ogni lingua è un sistema a sé stante e il tentativo imperfetto e difficile di tradurre significati da una lingua all’altra è, appunto, solo un tentativo. Chi abita all’estero ha smesso di parlare solo una lingua nella sua vita quotidiana e mescola amabilmente due o più idiomi insieme anche quando parla con un conterraneo non perché ha dimenticato la sua lingua, ma perché quando scopre concetti che nella sua lingua non ci sono non riesce più a farne a meno.

In questo articolo lo scrittore olandese (ma ormai genovese di adozione) Ilja Pfeijffer spiega una delle lacune della sua lingua. In olandese esiste una sola parola per due concetti per noi italiani molto diversi: le parole “colpa” e “debito” vengono entrambe tradotte come schuld. Questo spiega benissimo la ritrosia della frugale Olanda nel concedere prestiti ad altri Paesi membri dell’Unione: per la mentalità olandese un debito è automaticamente una colpa e quindi qualcosa di negativo. I limiti della lingua impediscono loro di capire che i debiti possono anche essere opportunità.

Visto che credo gli scambi arricchiscano ho fatto una breve lista di parole che l’olandese e l’italiano dovrebbero scambiarsi per arricchirsi a vicenda di significati nuovi.

Le parole che servono all’italiano

Ci sono due categorie di parole e espressioni che ruberei all’olandese.

La prima appartiene a quelle parole che alcuni definiscono “intraducibili” perché non hanno una parola corrispondente in italiano, vanno spiegate. La mia preferita è gezelligheid, che descrive una sensazione ben precisa. Hai invitato i tuoi amici preferiti a una festa, siete seduti su un divano comodo e state mangiando qualcosa di semplice ma di vostro gusto con un bel bicchiere di vino. La conversazione sgorga in modo spontaneo: tutti si sentono perfettamente a proprio agio e rilassati, sorridono e il tempo sembra volare. Ecco, questa è gezelligheid. Negli anni ho sviluppato una vera e propria dipendenza nei confronti di questa parola e mi trovo onestamente in difficoltà quando ne devo fare a meno perché il mio interlocutore non parla olandese.

Poi ci sono le frasi che semplicemente non diciamo. Mi spiego meglio con un esempio: avete presente quando siete alla cassa di un negozio di abbigliamento e state pagando? Ecco, in Italia la commessa mette il vestito nella borsa e ve la porge solo con un sorriso, al massimo dice “Grazie e arrivederci”. In Olanda questo gesto è accompagnato a una frase ben precisa: “Veel plezier ermee!“, cioè vi augurano di godervi il vostro nuovo acquisto. Mi fa sempre sorridere la reazione che ottengo quando qualcuno mi chiede di tradurre questa frase e spiego che non esiste: “Come non esiste?! Ma io la voglio dire!”. Forse gezelligheid e veel plezier ermee mi piacciono così tanto perché descrivono sensazioni piacevoli, e mi aiutano a ricordare che certi momenti vanno celebrati e le parole per queste occasioni non sono mai troppe.

Le parole che servono all’olandese

Le più grandi lacune da me riscontrate nella lingua olandese sono tutte in ambito alimentare. Che enorme sorpresa! Sarcasmo a parte, data l’estrema semplicità della cucina olandese non stupisce la scarsità del relativo vocabolario culinario, ma il problema è che mancano gli strumenti per redimere gli abitanti delle terre piatte e insegnare loro le basi della cucina. Infatti, il verbo koken significa sia “cucinare” che “lessare”. La stessa enorme confusione sussiste anche con bakken che vuole dire sia “cuocere in padella” che “al forno”. In generale, all’olandese manca del tutto l’enorme varietà di termini italiani usati per descrivere le fasi di preparazione del cibo e gli ingredienti, ma questa lacuna è giustificata dall’incredibile “semplicità” della cucina locale. Per esempio, in Italia i tantissimi tagli di carne hanno nomi diversi quasi in ogni regione. Qui no, ma non mancano solo le parole, mancano direttamente i tagli di carne.

Questa enorme frugalità linguistica in ambito alimentare mi mette sempre in difficoltà. Il problema non è che non posso comunicare con il macellaio, quanto che non posso nemmeno pensare di spiegare a chi mi circonda come si cucina perché mancano a me – ma soprattutto agli altri – le parole per farlo. Non basta tradurre in olandese e spiegare, a volte alle sfumature di significato ne corrispondono altrettante di sapore che sono enormi per noi italiani e del tutto inesistenti per gli olandesi.

Cosa ho perso e cosa ho guadagnato

Così, se quando penso alla parola gezelligheid sento di aver guadagnato qualcosa di prezioso, quando parlo di cibo in olandese mi sento le mani legate. Questi esempi ci mostrano in modo molto pratico che per arrivare a parlare davvero bene una lingua è necessario focalizzarsi non solo sulle parole ma capirne bene la relativa cultura, poiché le parole ne sono la naturale conseguenza. Le parole, per dirla breve, sono al servizio della cultura, e se alcuni termini in una lingua non esistono è semplicemente perché quella cultura non li ritiene necessari. Le lingue non sono uno strano agglomerato di parole e di suoni e per impararle bene davvero è necessario comprendere fino in fondo la cultura. E questo processo è dannatamente affascinante.

Homo homini lupus

Due anni fa in un post ho analizzato i tipi più caratteristici nei gruppi Facebook di italiani all’estero. Per qualche strana ragione invece di uscire da questi gruppi nel frattempo sono entrata in altri, e ho continuato a leggerne i post e i commenti. Così è giunto il momento di riprendere in mano il mio taccuino da antropologa ma questa volta, dato che sono una traduttrice e non una psicologa, oltre ai tipi umani voglio focalizzarmi sui testi. Ho notato – e non è davvero stato difficile – che i membri della comunità italiana all’estero invece di aiutarsi tentano di nuocersi a vicenda come i capponi di Renzo. Così vi ho preparato una carrellata dei tipi di post e delle risposte più comuni con cui l’italiano all’estero mostra il proprio istinto darwiniano.

1. Homo pecuniosus

Gli italiani in Italia credono che tutti i propri connazionali emigrati siano miliardari, e questa credenza si è propagata anche all’estero grazie all’homo pecuniosus, uno degli ominicoli più frequenti al di là delle Alpi. Tale creatura esiste in natura in due sottospecie: l’homo presente e quello futuro. Quello presente, simpatico e piacevole come il Dogui, ama spesso fare notare che lui in Italia non ci tornerebbe mai perché con quello che si guadagna là non potrebbe fare la vita da nababbo a cui è ormai abituato. Ma spesso e volentieri posta in modalità anonima.

Il miliardario futuro è più subdolo. Tipicamente esorta dicendo: “Mi hanno offerto uno stipendio di X euro (sempre cifre superiori ai 5.000€ al mese). Sono un tipo semplice, sono single e conduco una vita monacale. Che dite, mi basteranno?”. Sì, gli basteranno, perché conosco persone che mantengono una famiglia con cifre ben minori. Però le risposte sono tipicamente del tipo: “Sì, potresti farcela se vai a stare in un posto isolato”, “Sì, ma dovresti nutrirti di muschi e licheni, perché se ti fai una pizza ogni tanto sfori”. Stranamente nessuno dei numerosi italiani retribuiti con il salario minimo gli dice cosa pensa di lui.

2. Homo curriculorum

Ogni tanto qualcuno si lamenta di fare fatica a trovare lavoro e chiede aiuto. Qualcuno cerca di indirizzarlo, ma non è questa la reazione più comune. I commenti più frequenti sono sempre di due tipi: a) “Strano, in Olanda il lavoro te lo tirano dietro. Guarda, io neanche lo volevo, ma avevo due headhunter che stavano diventando insistenti. Li ho visti battersi a duello sotto la mia finestra per avere la mia firma sul contratto”. (Ok, ci ho ricamato un po’ su ma non mi sono allontanata molto dalla realtà); b) “In Olanda il lavoro si trova in un’oretta. Chi non lo trova è un imbecille”. Vorrei potervi dire che anche quest’ultimo commento è inventato e invece è tristemente vero.

Gli effetti di questo atteggiamento sono devastanti su chi sta cercando lavoro. La realtà è che a meno che si stia cercando un lavoro che richiede un po’ di esperienza ma non molte qualifiche (tipo il cameriere), trovare lavoro nei Paesi Bassi non è così immediato. Non dovrebbe essere troppo difficile per chi ha un curriculum tecnico non troppo specializzato, è giovane, parla la lingua del posto e magari ha un diploma locale. La ricerca di un contratto è molto più difficile per chi ha lauree in materie umanistiche, ma conosco anche ingegneri che hanno cercato lavoro per anni prima di trovarlo, perché la competizione è serrata e non tutti sono single e disposti a traslocare ovunque e in qualsiasi momento per il contratto perfetto.

3. Homo miserrimus

C’è chi avrebbe bisogno di uno psicologo ma decide di usare un gruppo Facebook avvalendosi della possibilità di postare in anonimo. La reazione più appropriata a questo tipo di post sarebbe un abbraccio (seppur virtuale), ma c’è chi invece di tacere decide di dare il suo inutile parere. A chi soffre terribilmente la mancanza della famiglia e del proprio Paese viene detto: “Non tornare, là non avresti i bonus salariali e gli aumenti che hai qui”. A chi racconta questioni private e sentimentali dolorosissime vengono dati giudizi taglienti sempre con l’imperativo, come se da fuori fosse possibile capire dinamiche delicate e complesse. Se chi posta ha dubbi esistenziali, chi commenta non ne ha mai, e pare avere enorme facilità nel mettere in ordine le vite degli altri.

4. Homo integratus radicalis

Talvolta si fa dell’umorismo o si fa notare con sarcasmo le differenze culturali tra noi italiani e i locali. Non è difficile capire che l’intento di questi post non è offensivo. C’è chi fa notare abitudini alimentari bislacche o posta foto di case arredate in modo per noi italiani piuttosto curioso. Fortunatamente la maggior parte degli utenti capisce l’ironia e ribatte a tono, ma non manca mai l’integrato radicale. Se dite che in Italia un caffè costa sempre meno ed è più buono di un caffè nel nord Europa lui dirà che in quel Paese ha bevuto ottimi caffè, siete voi che non li avete saputi trovare. Se ridacchiate alle spalle dei vostri colleghi o vicini di casa per le usanze locali, lui dirà “Mai successo e abito anche io lì da 20 anni”. E poi aggiungerà sempre la frase finale: “Mi trovo molto meglio qui che con gli italiani”. A qualsiasi critica risponderà che non dovete permettervi di criticare il luogo in cui vivete e che vi meritereste di tornare in quella valle di lacrime che è l’Italia. Effettivamente molti ci tornerebbero volentieri, ma non l’integrato. Lui ha sposato il Paese in cui vive e detesta ogni singolo aspetto del luogo da cui proviene, persone incluse. E allora, verrebbe da chiedersi, perché si iscrive a gruppi di italiani all’estero?

4. Homo trifolao

Il quarto tipo non è sui social. So cosa penserete: “La vita reale è meglio dei social, solo lì si trovano le vere amicizie”. E invece no. Se l’italiano non lavora nel vostro stesso settore e non è una partita IVA, c’è qualche speranza, ma se è un collega reale o potenziale troverete anche all’estero lo stesso clima cordiale e solidale tipico negli uffici in Italia. Solo che mentre in Italia uno si aggira guardingo tra le scrivanie aspettandosi la pugnalata alle spalle in ogni momento, all’estero l’incauto immigrato pensa di avere abbandonato per sempre certe situazioni. E invece no. Se il neofita della vita all’estero incorre nell’errore di chiedere aiuto (non clienti eh, solo qualche dritta), le reazioni sono quasi sempre le stesse: si tenta in vari modi di dargli informazioni fuorvianti o di farlo dubitare delle sue abilità per confonderlo e sminuirlo. Usando una metafora a me cara, è come chiedere a un cercatore di tartufi: “Dove li ha trovati?”. Se vi risponde, certamente non vi dirà la verità.

How smart I am

Alcune settimane fa il mio feed di Instagram mi ha proposto un video che mi ha fatta riflettere. Si tratta di una scena della sitcom americana Modern Family in cui Gloria, che è una dei protagonisti ed è di origine sudamericana, sbotta con alcuni dei suoi familiari americani e spiega che è stanca di tradurre tutto ciò che vuole dire in inglese nella propria testa e di sopportare le risatine altrui. Ma è una frase in particolare ad avermi colpita: “Do you know how smart I am in Spanish?”. Poi ho letto i commenti sotto al video di altri stranieri, e ho capito che abbiamo tutti provato almeno una volta quella sensazione di inadeguatezza tipica di chi si ritrova a vivere in una lingua non sua. Provo a spiegarvi perché noi stranieri finiamo a volte per sentirci per nulla smart, cioè stupidi.

1. La prima ragione è la più evidente. Certo, abbiamo studiato la lingua ma non è la nostra. E quindi a volte quando siamo circondati di nativi che parlano a ultra velocità cerchiamo di stare al passo ma rischiamo di fallire miseramente: balbettiamo, ci blocchiamo o ci si ingarbuglia la lingua. Poi ci sono i momenti in cui le parole restano incastrate sulla punta della nostra lingua e quelle in cui semplicemente non le sappiamo. E infine quelle volte in cui vorremmo far vedere che i soldi per il corso C1 sono stati ben spesi ma sbagliamo qualcosa e il risultato invece di un “Ohhh” di ammirazione da parte dei nativi è una risatina sprezzante.

2. È universalmente noto che la nostra conoscenza delle lingue dipende dai contesti. Per qualche stranissima ragione parliamo benissimo con amici o persone che ci sono simpatiche e ci si ingarbuglia la lingua ai colloqui di lavoro o con il nostro antipaticissimo capo. Poi ci sono quelle volte in cui siamo agitati e preoccupati (tipo dal medico) oppure ammalati e stanchi, e parlare correttamente è un’impresa. Ma bisognerebbe anche pensare che se siamo sovrappensiero o impegnati con qualcosa di difficile sarebbe bene non parlarci a raffica pretendendo la nostra piena comprensione. Essere multitasking è difficile anche per chi parla quella lingua da sempre, per noi lo è spesso di più.

3. Poi c’è la questione humour. Sì, spesso non rido alle battute dei nativi ma il problema non è il mio intelletto, è che il mio humour è totalmente diverso e a volte mi manca anche il background necessario per trovare una certa battuta divertente, cioè non conosco le persone o le situazioni a cui si fa riferimento. Allo stesso modo ho smesso di fare battute perché il mio humour italiano decisamente noir è solitamente troppo ardito per gli standard olandesi. Così a volte vengo considerata troppo seriosa, mentre nella realtà sto semplicemente cercando di evitare situazioni imbarazzanti.

4. Infine ci sono le emozioni. Nel video Gloria è arrabbiata e cerca di farsi le sue ragioni, ma anche in quel momento viene ripresa dai suoi familiari che, invece di ascoltare cosa ha da dire, decidono di correggere il suo inglese. Nei miei anni all’estero ho capito che le emozioni interferiscono alla grande con la capacità di parlare in un’altra lingua e per ovviare a questo inconveniente ho cercato di sopprimerle quanto più possibile: nulla è più patetico di uno straniero che ti urla contro sbagliando le parole, viene quasi da sorridere. Così noi stranieri siamo abituati a mantenere il sangue freddo in ogni situazione, fino all’ovvio scoppio come nel video di Gloria.

5. Ho notato che sui social quando qualcuno vuole passare in vantaggio in una discussione che sta perdendo improvvisamente inizia a correggere la lingua dell’altro. Ecco, a noi stranieri questo avviene in continuazione. Lo fa soprattutto chi vuole farci sentire ospiti e chi non ha alcuna intenzione di stare a sentire il nostro punto di vista ma ha bisogno di un modo facile per zittirci. Peggio ancora del “Non si dice così!” è il sorrisetto di commiserazione appena sbagliamo una parola o gesticoliamo un po’ troppo. Il risultato è sempre lo stesso: il nostro punto di vista viene ignorato.

Parlare costantemente una lingua non completamente nostra è come indossare una giacca di una taglia più piccola: è scomodo ma dopo un po’ ci si abitua e ci si fa poco caso. Certo, è bella la sensazione di poter indossare una giacca più comoda, ma non è colpa degli altri se abbiamo deciso di vivere in un Paese in cui non siamo nati. Non possiamo nemmeno pretendere che gli altri conoscano bene gli effetti della nostra condizione: per alcuni “sapere le lingue” vuol dire essere in grado di ordinare un caffè all’estero, come possono sapere cosa si prova a vivere in una giacca stretta? L’unica cosa che possiamo fare però è pretendere attenzione e rispetto.

So this is Christmas…

Anche quest’anno volge quasi al termine ed è giunto il momento di scambiarci i tradizionali pigiami che infeltriscono dopo un lavaggio, le candele che restano a prendere la polvere sul davanzale e le piante che non arriveranno nemmeno a mangiare il panettone perché mi dimenticherò di bagnarle subito dopo averle spacchettate.

Dato che di questioni personali ho parlato molto nei mesi scorsi – forse anche un po’ troppo – preferisco parlare ora del blog. Rispetto all’anno scorso non sono aumentate le visualizzazioni, ma sono aumentati i commenti, alcuni dei quali mi hanno fatto davvero piacere perché mi hanno dato spunto per nuove riflessioni. Se avete una curiosità sui Paesi Bassi non esitate a chiedermi: non sarete esaudite/i immediatamente (perché prima devo ragionarci sopra) ma prima o poi certamente scriverò qualcosa al riguardo. Ma soprattutto, se vi piace cosa scrivo non abbiate paura di dirmelo direttamente. E se avete suggerimenti o osservazioni anche negative (purché espresse in modo educato) fatevi avanti.

Quest’anno, come avrete notato, sono finita un pochino “fuori tema”, cioè ho parlato meno di stereotipi sull’Italia e più dei temi che mi interessano da sempre, come le donne e soprattutto la lingua. La ragione c’è, e non è solo che adoro parlare di questioni linguistiche. Da alcuni mesi collaboro con Taal Doet Meer, un’associazione di Utrecht che aiuta gli stranieri a imparare l’olandese e organizza eventi per promuovere l’integrazione dei neoarrivati nel tessuto sociale di Utrecht. Il patto iniziale era che avrei semplicemente adattato e tradotto miei post vecchi, ma il pensiero di cosa può interessare il mio nuovo pubblico ha dirottato un pochino la mia ispirazione, per cui credo che in futuro parlerò sempre più di lingua e meno di stereotipi. Credo che la lingua sia uno specchio della società perché ne mostra rapidamente i mutamenti, ed è così per me un modo molto facile per parlare di cultura: si sa che non amo i numeri, ma tra le parole mi trovo perfettamente a casa. E poi per me la lingua è come la cucina per gli italiani: passerebbero giornate intere a parlare di cibo senza mai esaurire gli argomenti.

Ho deciso di collaborare con Taal Doet Meer perché conosco molto bene il contesto in cui si trovano i neoarrivati nei Paesi Bassi dato che nove anni fa ero nella loro condizione e mi sono iscritta a una associazione di questo tipo nella città in cui abitavo. La procedura era la seguente: dopo un colloquio preliminare mi avrebbero assegnato un taalmaatje, cioè una persona con cui avrei fatto pratica di olandese. Però le cose sono andate in modo un po’ diverso dal previsto: la persona che faceva le interviste aveva deciso di non prendere più alcun “compagno di lingua”, ma dopo avermi conosciuta ha cambiato idea e ha chiesto che fossi assegnata a lei. Poi mi ha spiegato: “Mi ero stufata di dover parlare con persone con una cultura tanto diversa dalla mia. Volevo una europea”. Ho capito che la diversità non è frasi romantiche e pubblicità colorate tipo quella famosa di Benetton. Talvolta la diversità ci colpisce con violenza, e accettarla è difficile perché ci viene richiesto di relativizzare la nostra cultura e sospendere ogni giudizio. Pare semplice ma è complicatissimo. A volte accusiamo le persone di razzismo ma nella realtà la loro è solo impreparazione: credevano che aiutare il prossimo fosse un hobby leggero e di poco impegno, si sono trovati davanti persone con cui non condividono assolutamente nulla. Alcuni resistono, altri cercano di soffocare un malcelato disgusto, altri cedono e si scelgono un passatempo meno impegnativo. Anche se in quanto europea non sono la persona più adatta a questo scopo, vorrei aiutare a visualizzare anche solo un pochino cosa è la diversità e come è necessario prepararsi per non venirne sconvolti troppo. Al contempo, conosco bene il punto di vista dei neoarrivati e vorrei condividere con loro alcune dritte che mi avrebbero fatto comodo alcuni anni fa. Per questa ragione, oltre che per raggiungere un pubblico più ampio, credo che in futuro tradurrò in inglese alcuni miei post.

Manca solo il tradizionale proposito per il nuovo anno. Mi ero proposta di volare basso perché l’anno trascorso è stato per me un tantinello pesante e non è il momento adatto per alzare l’asticella, ma un proposito serve anche se poi non lo mettiamo in pratica (o non del tutto), perché ci dà comunque una direzione. Ecco, tutti i miei buoni propositi per il nuovo anno sono stati ispirati da una delle mie scrittrici preferite, Michela Murgia. Lei ha svolto decine di lavori diversi senza smettere mai di coltivare la sua passione per la scrittura, spiegato cos’è il femminismo, parlato di genere e diversità e, come ha ricordato la sua amata famiglia queer, creato connessioni tra le persone semplicemente perché insieme si è più forti. Per quanto riguarda il femminismo, forse tutto il suo lavoro ha davvero portato frutto, perché ho l’impressione che finalmente si stia riuscendo a vedere il patriarcato, e questo è il primo passo. Il prossimo è sconfiggerlo, e non sarà facile ma non ho perso le speranze. Il secondo obiettivo sono le relazioni: nei gruppi Facebook di italiani/e nei Paesi Bassi di cui faccio parte noto un enorme bisogno di amicizia e relazioni, al punto che talvolta penso che chi dice di non averne bisogno semplicemente si sia arreso alla solitudine. Così vorrei iniziare il nuovo anno pensando a lei, cercando di dire sempre cosa penso ad alta voce, di scrivere e di trovare molte persone come me.

Paese che vai, lingua che trovi

Quando mi sono trasferita in Olanda e ho spiegato a nuovi e vecchi conoscenti che avrei studiato l’olandese due sono state le reazioni: “Non ti preoccupare, imparerai la nuova lingua in un battibaleno” e “Sì vabbè, ma non lo imparerai mai bene”. Niente vie di mezzo né osservazioni lucide e obiettive. Ora dopo molti anni però posso riflettere sull’intero processo, e ho realizzato che imparare una lingua sui banchi di scuola da piccoli e apprendere la lingua del luogo in cui ti sei trasferita da grandicella sono due esperienze totalmente diverse. Entrambe le modalità hanno pregi e difetti, ma soprattutto inconvenienti che possono facilmente essere risolti, basta esserne consapevoli. Ecco la mia esperienza personale.

Il tempo

“We have all the time in the world” cantava Louis Armstrong. Ecco, quando inizi a studiare lingue in prima media, come ho fatto io, quella è la sensazione che provi. Avrai tempo per praticare ogni conversazione migliaia di volte prima di doverla fare per davvero, tempo per approfondire singoli aspetti e per fare tanti esercizi. Non è vero che da adulti non è più possibile imparare bene le lingue – come pensano in molti – ma è vero che la mancanza di tempo ti crea una notevole pressione psicologica. Sai che dovrai presto sostenere colloqui di lavoro in olandese e temi che il minimo errore ti metta fuori combattimento. Così hai una fretta enorme, che non ti pone nella migliore condizione per imparare.

La groviera

Il processo di apprendimento scolastico segue un percorso ben chiaro e logico, quando invece sei grandicella e hai bisogno di quella lingua ogni giorno quel percorso segue la tua vita. Per esempio, subito dopo aver imparato l’alfabeto ho chiesto alla mia insegnante di insegnarmi il lessico di base che mi sarebbe servito per partecipare a una lezione di yoga. Così non ero ancora in grado di presentarmi, ma capivo “Pak een matje” (=prendete un materassino) e conoscevo i nomi delle parti del corpo.

Il risultato di tutto ciò è molto ovvio: la mia conoscenza dell’olandese aveva più buchi di una forma di groviera, e ho dovuto procedere a ritroso per colmare tutti questi crateri creati dalla troppa fretta di imparare. Uno di questi è la capacità di scrivere, che viene spesso trascurata nei corsi di lingua con troppi studenti forse perché allenarla richiederebbe un grande dispendio di tempo da parte dell’insegnante per correggere i compiti. Il risultato di tutto ciò è che facevo fatica a scrivere una e-mail senza l’ausilio del correttore automatico di Word.

L’opinione altrui

Quando si impara una lingua straniera sui banchi di scuola solitamente le interferenze sono limitate. Per “interferenze” intendo persone diverse dai propri insegnanti che vogliono aiutare lo studente ma che in realtà finiscono per confonderlo alla grande. Così lui sviluppa le sue competenze nella sua bolla fino a quando – con un po’ di shock – si troverà a dover mettere tutto in pratica durante uno scambio o una vacanza studio.

Chi invece impara le lingue sul posto si trova ad aver a che fare subito con persone che solo perché parlano una data lingua credono di poter essere anche in grado di giudicarne la conoscenza negli altri, suggerire metodi e correggere la pronuncia. Sono riuscita fin da subito a tenere a bada i giudizi troppo negativi o troppo lusinghieri e a ignorare i commenti sul metodo, ma mi sono persa nel gorgo degli accenti. Il punto è che in Olanda quasi tutti hanno un accento e molti invece di lasciarmi quello che stavo sviluppando, cioè quello dell’insegnante di quel momento, hanno deciso di impormi il loro. A volte li ho ascoltati e ho modificato la mia pronuncia di certe parole per poi venir nuovamente corretta da altri: “Ma cosa dici?! Non si dice così”.

Gli insegnanti

Ho seguito moltissimi corsi di olandese e avuto tanti insegnanti: alcune fantastiche (tutte donne, che ci posso fare), altri/e meno, perché credevano che farmi leggere libri per bambini pieni di termini non proprio utili nella vita quotidiana (tipo “orco”) fosse utile. Ma il problema principale è che non correggevano i miei errori. Forse non volevano demotivarmi, forse ne facevo troppi e non riuscivano a starci dietro, chissà perché lo facevano. Il problema è che i corsi per adulti solitamente non hanno esami e raramente le persone con cui parliamo ogni giorno ci correggono, così ci ho messo un po’ a rendermi conto della mole di errori che facevo e correre ai ripari è stato più duro di quanto sarebbe stato imparare subito a parlare in modo corretto. Se avete un’insegnante che prende nota dei vostri errori mentre parlate e ve li spiega tenetevela stretta.

Non tradurre

La traduzione è una mia grande passione, ma ho imparato sul campo che non aiuta a imparare bene le lingue semplicemente perché ciascuna è un sistema a sé stante, e tradurre in continuazione rallenta notevolmente il nostro cervello oltre a essere fonte di innumerevoli errori. Vi farò un esempio: a yoga ho notato che ogni volta per chiederci di tenere una certa posizione (sempre scomoda) la nostra insegnante ci diceva “hou vol”. Non mi sono mai chiesta come avrei tradotto questa frase in italiano, l’ho semplicemente collegata a una situazione. Lo stesso ho iniziato a fare con quasi tutte le parole e le frasi di uso più comune. Sono stata aiutata in questo dal fatto che molte delle mie insegnanti di olandese parlavano poco inglese o avevano giustamente poca voglia di tradurre ogni singola parola. Se avevo un dubbio chiedevo: “In quale contesto si usa questa parola?” e loro mi facevano subito un esempio. Per fortuna alcuni libri non hanno le noiosissime liste di parole ma immagini e esempi.

Praticare

Imparare le lingue a scuola è spesso molto noioso semplicemente perché non si vede a volte l’utilità di ciò che studiamo e si pratica troppo poco. Il punto è che provare una conversazione standard con il nostro vicino di banco – che magari è anche la nostra migliore amica – e avere una vera conversazione magari in un contesto che ci agita un po’, tipo dal medico, è diverso. Quando impari la lingua sul posto hai innumerevoli occasioni di praticare subito ciò che hai immediato, il che è una notevole spinta motivazionale. E poi il riscontro ti permette di “correggere il tiro” e magari affinare la tua pronuncia imitando gli autoctoni.

Full immersion

Ammetto che i ragazzi che studiano ora le lingue straniere hanno mille modi per “immergersi” nella lingua grazie a video su youtube, serie TV in lingua originale e musica a volontà su Spotify, ma tutti questi dispositivi hanno il tasto di spegnimento. Ecco, all’estero il tasto di spegnimento non esiste. Ciò vuol dire che anche se hai appena finito di studiare olandese e vorresti solo rilassarti e fare una passeggiata, i tuoi occhi vedranno insegne in olandese, le tue orecchie sentiranno persone parlare in olandese e se vuoi berti una tazza di tè dovrai ordinarla in olandese. La sensazione di essere immerso negli stimoli non è per tutti piacevole all’inizio: alcuni la percepiscono come estremamente stancante e desiderano fortemente poter chiudere il quaderno e lasciare la scuola. Solo che ci abitano nella “scuola”.

Cosa mi manca

“Cosa ti manca dell’Italia?” è una domanda da cui cerco di sfuggire ogni volta che mi viene posta. Le ragioni sono molteplici. Innanzitutto, chi me lo chiede tipicamente si aspetta una risposta corta e prevedibile, del tipo “la pizza”, e so che le mie lunghe e complesse elucubrazioni lo farebbero pentire di avermi rivolto la parola. In secondo luogo, credo che alcuni vorrebbero sentirsi dire “solo la pizza, per il resto il vostro Paese è così fantastico! Come potrebbe mancarmi qualcosa?!” e, dato che non so mentire, la mia risposta li offenderebbe. Infine, è una domanda piuttosto intima e non me la sento di aprirmi a qualcuno che conosco a malapena. Però la settimana scorsa sono stati due bambini a chiedermelo, e lo hanno fatto con tale educazione e voglia di ascoltare che davvero mai avrei potuto ricorrere ai miei soliti sotterfugi per distrarre il mio interlocutore e cambiare argomento. Dato che siete arrivati a leggere fin qui senza chiudere la pagina, probabilmente anche voi avrete voglia di sentire i miei ragionamenti. Ecco ciò che mi manca in ordine crescente.

5. Il cibo

Questa è l’unica risposta che si aspettano tutti, e invece è all’ultimo posto. No, non è la pizza a mancarmi perché qui non mancano i pizzaioli napoletani e i prodotti con cui farla a regola d’arte. E poi so cucinare e mi sono abituata a integrare nella mia dieta una gran quantità di piatti etnici (hummus, falafel, ramen, curry…) che effettivamente mi mancherebbero se abitassi in Italia. Mi mancano un po’ di più alcuni prodotti tipici tipo i formaggi d’alpeggio e i cioccolatini di un rinomato artigiano torinese, ma soprattutto vorrei frutta e verdura di varietà che qui non trovo e provenienti da agricoltura non intensiva. Il che vuol dire che vorrei gli zucchini con il fiore, i carciofi sardi, i peperoni cuneesi, dell’aglio non importato dalla Cina, dei pomodori cuore di bue ben maturi… Vi sembra semplice, lo so, ma non lo è.

4. Il bello

Degli italiani mi manca invece la passione per il bello e la voglia di lavorare a lungo e con passione per ottenerlo. Per esempio, adoro guardare come muovono le mani le parrucchiere italiane mentre tagliano, sfilano e rifiniscono il taglio con infinita pazienza, e poi fanno messe in piega boccolose che dureranno pochi minuti solo per strappare un sorriso alle loro clienti. Quando vado qui dalla parrucchiera raramente taglio e asciugatura richiedono più di un quarto d’ora. Quest’ultima viene fatta sventolando il phon a casaccio sempre senza spazzola e poi, quando la parrucchiera vede che i miei capelli sono diventati crespi, puntualmente chiede: “Vuole dell’olio?”. Solitamente penso “Quello io lo metto sull’insalata”, ringrazio e lo rifiuto, mi tiro su il cappuccio della felpa e vado a casa a farmi la messa in piega da sola. Ma lo stesso vale per i macellai, che con precisione da chirurgo disossano e affettano in base alle richieste del cliente, mentre quelli olandesi si limitano ad allungare vaschette preconfezionate perché così è più efficiente. E poi ancora ci sono le estetiste, le sarte, le commesse dei negozi di abbigliamento e, in generale, tutti coloro che lavorano per produrre qualcosa che deve dare piacere. Mi piace pensare che il bello non sia effimero ma meriti dedizione e, soprattutto, tanta sana inefficienza.

3. I panorami

Quando abitavo in Italia non credevo l’incredibile varietà di panorami della nostra penisola mi sarebbe mancata. Certo, era bello riconoscere il Monviso all’orizzonte, ma non credevo che la sua assenza potesse diventare un problema. Poi mi sono resa conto che molti altri Paesi europei hanno un territorio piuttosto uniforme e le montagne hanno iniziato a mancarmi insieme, ovviamente, alle attività che avrei potuto fare su di loro. Ogni anno a giugno, invece, tipo il richiamo dalla foresta, è il mare a far sentire la sua assenza. Così puntualmente con il mio compagno decidiamo di andare un giorno sulla costa, guardiamo il colore grigio delle onde e il vento che solleva la sabbia e, quando siamo smerigliati a sufficienza, torniamo a casa. Certo, il mare del nord ha un suo fascino… ma per me la parola “mare” identifica il Mediterraneo e basta.

2. Le sensazioni

Più dei panorami, però, mi mancano le sensazioni a loro legate. Per esempio, penso spesso a una polenta servita in un rifugio di montagna dove sono andata parecchie volte, ma credo che il suo sapore fosse fortemente influenzato dal rumore del ruscello che gli scorre a fianco, dal profumo del bosco che bisogna attraversare per raggiungere quel posto e dalla luminosità del cielo. Ecco perché noi italiani all’estero impazziamo letteralmente quando guardiamo il commissario Montalbano, perché sentiamo il frinire delle cicale, riconosciamo le ombre del sole estivo e quando lo vediamo nuotare ci sembra di sentire l’odore del sale e la sensazione di freschezza sulla pelle. Nei gruppi Facebook diciamo spesso di essere felici e realizzati, ma non vediamo l’ora che arrivino le vacanze per andare a coccolare i nostri sensi.

1. La domanda fatale

Ma soprattutto, più ancora delle emozioni, è una “non-domanda” a mancarmi. Cioè, mi manca il fatto che una certa domanda in Italia non mi venga mai posta, mentre qui invece mi perseguita: “Da dove vieni?”. Apparentemente innocua, mi viene spesso fatta da persone totalmente sconosciute appena sentono un accento strano, e subito mi affibbia un ruolo ben preciso, quello della straniera. Davvero, chi me lo chiede non intende offendermi, e non c’è nulla di male a essere straniera, ma io la sento come un’intrusione nella mia privacy e un tentativo di ricordarmi che non appartengo a quel luogo. A Torino mai nessuno me l’ha chiesto. Così mi trovo spesso a pensare al concetto di heimat, che in tedesco vuol dire “luogo a cui sentiamo di appartenere”. Ecco, nella tua heimat nessuno commenta il tuo accento o ti chiede da dove vieni. Così senti le spalle che si rilassano e provi quella sensazione che solo nella tua heimat è possibile.

Galateo minimo per le interazioni con gli stranieri

A volte nel mio blog ho parlato della difficoltà a avere conversazioni piacevoli con alcuni autoctoni, ma devo ammettere che le domande inopportune raramente sono intenzionali. Dalle interazioni con i miei vicini di casa – perlopiù over 60 sempre vissuti in una cittadina con pochi stranieri – ho capito che le loro gaffe sono semplicemente il risultato di una scarsa abitudine ad avere a che fare con il misterioso “altro”.

Questo problema mi ha fatto venire in mente una vecchia Bustina di Minerva, la rubrica che teneva ogni settimana Umberto Eco sull’Espresso. Ricorderete tutti quando Berlusconi chiamò il neoeletto Obama “abbronzato”. Le reazioni alla sua ennesima uscita infelice furono come al solito diverse: chi si vergognava, chi diceva che non era affatto una gaffe e non c’era nulla di offensivo, chi pensava che Berlusconi fosse proprio un simpaticone. Eco spiegò che l’espressione non era inequivocabilmente offensiva e chiaramente non era questo l’intento. Il punto è che cosa diciamo (e come lo diciamo) svela al mondo il nostro intimo più dell’abito che indossiamo.

In questo caso, alcune frasi lasciano intendere che certe persone non hanno avuto molto a che fare in vita loro con persone provenienti da altri Paesi. Non c’è nulla di offensivo, intendiamoci, magari alcuni avrebbero voluto viaggiare molto o lavorare in un ambiente internazionale e non ci sono riusciti, ma certamente questo è il risultato. Lo straniero tipicamente capisce la situazione, porta pazienza e non commenta, però probabilmente cercherà di evitare contatti con quella persona in futuro se possibile. Quindi, se volete (o dovete) avere molto a che fare con stranieri ecco il mio piccolo vademecum.

1. “Può ripetere per favore?”

A volte lo straniero vi chiede di ripetere cosa avete detto non perché ha problemi con la vostra lingua, ma perché non ha sentito. Molte possono essere le cause: problemi di udito, era distratto, avete bofonchiato, c’è molto rumore o la stanza ha una pessima acustica. Spesso la reazione del locale è di passare all’inglese. Non fatelo: se ha problemi con la lingua ve lo dirà lui.

2. Tutto il mondo (o quasi) è paese

La scrittrice nigeriana Chimamanda Ngozi Adichie in un suo discorso per il TED ha raccontato di quando, appena arrivata negli Stati Uniti, la sua compagna di stanza americana le ha prima fatto i complimenti per il suo inglese e poi le ha chiesto di farle ascoltare “la sua musica tribale” e lei le ha allungato una cassetta di Mariah Carey.

Allo stesso modo gli olandesi spesso si stupiscono quando dico che in vita mia ho ascoltato più musica in inglese che in italiano. Una volta una signora mi ha chiesto stupita: “Ah, come mai non ti piace Eros Ramazzotti?”. La globalizzazione è arrivata anche nella provincia italiana da cui provengo ed è forse la causa dell’iscrizione di molte ragazze alla facoltà di lingue straniere. Ma gli esempi sono molti e anche non attinenti alla musica perché, per esempio, pare strano che una italiana non vada a messa la domenica e parli bene l’inglese. Il punto è: non esotizzate lo straniero, spesso è davvero molto simile a voi.

3. “Tu dove andare?”

Una volta sul treno in Italia ho sentito una distinta coppia italiana parlare in modo davvero bizzarro con un ragazzo straniero: lui si esprimeva in un italiano molto semplice ma non troppo scorretto, loro hanno improvvisamente smesso di declinare i verbi. Sembrava di guardare un cartone animato.

A me è invece capitato che il locale si mette a fare gesti mentre parla. “Siete venuti in macchina?” mi chiede, e intanto muove le mani come se avesse un volante. Mancava poco che facesse “brum brum”. Avevo appena letto e firmato un complicatissimo documento sulla privacy in olandese e questo avrebbe potuto convincere la persona davanti a me delle mie doti linguistiche. E invece no. Magari non parlate come un politico della prima repubblica a uno straniero appena arrivato, ma evitate gesti sciocchi e sgrammaticature. Se scandite bene le parole e tenete sotto controllo la velocità lui vi capirà.

4. “Come vanno le tue lezioni di lingua?”

Nove anni fa questa era una domanda logica, ora non più. Molti però me la fanno ancora credendo che il motivo per cui parlo poco è che non ne sono in grado. E invece ci sono almeno centinaia di altre ragioni: perché sono timida, perché a volte non so cosa dire, perché “bel tempo, vero?” non mi pare una conversazione, perché alcune persone mi stanno antipatiche, perché a volte sono stanca o di fretta… Però spesso ciò porta il mio interlocutore a pensare che non so parlare la sua lingua e si infila in una domanda un po’ inopportuna.

5. Il nativesplaining

Dopo il mansplaining c’è anche chi vuole spiegare allo straniero cose che sa già (in Piemonte diciamo “non insegnare al gatto ad arrampicarsi”). Mi è successo la prima volta quando vivevo in Inghilterra da poco tempo. Ero andata con alcune colleghe allo Starbucks, e una di loro mi ha vista in difficoltà davanti al menù. Era la mia prima volta nella famosa catena di caffetterie, e mi ero persa tra dimensioni, sciroppi e frappuccini… così lei ha deciso di aiutarmi. “That’s a ‘latte’. It means ‘milk’”. Meno male che è venuta in mio soccorso, da sola non ci sarei mai arrivata!

Poi anni dopo un commesso in un negozio di caffè mi ha spiegato come funziona una Bialetti e l’amministratore di condominio mi ha svelato l’esistenza delle stufette elettriche. Ecco, dello straniero sapete poco: potrebbe avere un livello di istruzione minimo oppure una cultura sterminata. Voi limitatevi alle spiegazioni base e entrate nei particolari solo se ve lo chiede.

6. “Sei alta per essere italiana!”

Nei miei quattordici anni di permanenza all’estero ho capito che per gli stranieri le italiane sono tutte come Monica Bellucci. Diciamo che non è un brutto stereotipo… però non corrisponde molto al vero. Così molti hanno commentato con stupore la mia statura (1,85m) o mi hanno detto che ho la pelle scura anche se a dire il vero sono più pallida di molti olandesi.

È senza dubbio vero che in Italia la mia statura è più straordinaria che nei Paesi Bassi, ma è anche vero che noi italiane non siamo tutte le classiche donne con riccioli scuri e vestito a sirena che vediamo nella serie TV del commissario Montalbano. Quindi meglio evitare commenti sul fisico perché sono spesso basati su stereotipi che poco hanno a che fare con la realtà. Io, per dire, prima di trasferirmi pensavo che in Olanda tutti fossero come Ruud Gullit e Clarence Seedorf, gli unici olandesi che mi venivano in mente.

7. Parlate la stessa lingua

A volte lo straniero in Olanda chiede – e giustamente ottiene – di parlare inglese. Spesso però parla olandese e si vede rispondere in inglese. Questo mi è successo innumerevoli volte, e talvolta mi sono trattenuta a fatica dallo scoppiare a ridere perché ho assistito a conversazioni di parecchi minuti in cui lo straniero e il locale parlavano due lingue diverse. A volte poi – sì, nelle piccole città accade – il locale arrancava in inglese e lo straniero era perfettamente a suo agio in olandese.

Non passate automaticamente all’inglese pensando di fare un favore allo straniero. Potrebbe non parlarlo, o magari sta cercando di fare esercizio nell’altra lingua. È persino possibile che lo parli molto meglio di voi, e questo vi espone a una potenziale figuraccia che vi sareste potuti evitare.

8. Per nome e cognome

Nei miei quattordici anni di vita all’estero molti hanno cercato di decifrare la mia provenienza basandosi sul mio nome e cognome. Il risultato è stato piuttosto divertente, perché ho capito che chi si chiama Elena deve essere per forza di origine greca o slava. Il mio cognome invece mi ha portata nei paesi baschi e una volta persino nei Caraibi.

Il punto è che i popoli da sempre si spostano e i cognomi non sono in grado di aiutarci a capire la provenienza di qualcuno. Per fare qualche esempio, un mio compagno di classe a un corso di olandese si chiamava Witteveen ma era equadoregno, ma conosco francesi e brasiliani con cognomi tedeschi e olandesi con cognomi indonesiani. Invece di provare a indovinare la provenienza è meglio chiedere.

9. La corretta pronuncia

A proposito di nomi e cognomi… non abbiate paura di chiederci la pronuncia. Sappiamo benissimo che alcune combinazioni di suoni (tipo il /ch/ in italiano) sono difficili per gli stranieri, ma ci secca sentire pronunciare male il nostro nome ogni giorno da persone a noi vicine. Siamo pazienti in alcune situazioni – stiamo sempre sulle spine nelle sale d’aspetto perché non sappiamo mai come verrà storpiato questa volta e se riusciremo a riconoscerlo – ma ci piace quando colleghi e vicini pronunciano bene il nostro nome. Chiedeteci di spiegarvi come si pronuncia, lo faremo volentieri, anche più volte.

10. Ti spiego il tuo Paese

I media stranieri amano occuparsi dell’Italia specialmente quando c’è di mezzo qualche nefandezza. Nei miei numerosi anni all’estero ho visto innumerevoli reportage dei telegiornali sulla Costa Concordia, sulla mafia e sui ponti crollati, pochi sulle nostre eccellenze. Ciò porta gli stranieri a pensare di aver capito proprio tutto dell’Italia (e a volte anche a credere che il problema principale dell’Italia siano tutti i suoi abitanti).

Così capita a volte che il giorno dopo un evento che ci ha posti sulle prime pagine di tutti i quotidiani esteri l’autoctono provi a spiegarti il tuo Paese: “Ahh, io lo so perché il ponte di Genova è crollato”. Dato che si stavano ancora cercando le vittime questa frase mi è sembrata piuttosto inopportuna. Ma lo stesso avviene puntualmente dopo ogni elezione politica, quando l’italiano all’estero vorrebbe darsi malato per non incorrere nei commenti dei colleghi che vanno due settimane in vacanza in Italia ad agosto, ma si credono fini conoscitori di questioni che sfuggono alla maggior parte di chi nella penisola è nato e cresciuto. Leggete e cercate di informarvi da fonti attendibili, ma non spiegate allo straniero il suo Paese. Piuttosto, se la situazione lo permette (cioè, se lo straniero ne ha voglia), chiedetegli di spiegarvelo lui. Potrebbe raccontarvi un punto di vista privo di stereotipi al quale altrimenti non avreste accesso.