Paese che vai, lingua che trovi

Quando mi sono trasferita in Olanda e ho spiegato a nuovi e vecchi conoscenti che avrei studiato l’olandese due sono state le reazioni: “Non ti preoccupare, imparerai la nuova lingua in un battibaleno” e “Sì vabbè, ma non lo imparerai mai bene”. Niente vie di mezzo né osservazioni lucide e obiettive. Ora dopo molti anni però posso riflettere sull’intero processo, e ho realizzato che imparare una lingua sui banchi di scuola da piccoli e apprendere la lingua del luogo in cui ti sei trasferita da grandicella sono due esperienze totalmente diverse. Entrambe le modalità hanno pregi e difetti, ma soprattutto inconvenienti che possono facilmente essere risolti, basta esserne consapevoli. Ecco la mia esperienza personale.

Il tempo

“We have all the time in the world” cantava Louis Armstrong. Ecco, quando inizi a studiare lingue in prima media, come ho fatto io, quella è la sensazione che provi. Avrai tempo per praticare ogni conversazione migliaia di volte prima di doverla fare per davvero, tempo per approfondire singoli aspetti e per fare tanti esercizi. Non è vero che da adulti non è più possibile imparare bene le lingue – come pensano in molti – ma è vero che la mancanza di tempo ti crea una notevole pressione psicologica. Sai che dovrai presto sostenere colloqui di lavoro in olandese e temi che il minimo errore ti metta fuori combattimento. Così hai una fretta enorme, che non ti pone nella migliore condizione per imparare.

La groviera

Il processo di apprendimento scolastico segue un percorso ben chiaro e logico, quando invece sei grandicella e hai bisogno di quella lingua ogni giorno quel percorso segue la tua vita. Per esempio, subito dopo aver imparato l’alfabeto ho chiesto alla mia insegnante di insegnarmi il lessico di base che mi sarebbe servito per partecipare a una lezione di yoga. Così non ero ancora in grado di presentarmi, ma capivo “Pak een matje” (=prendete un materassino) e conoscevo i nomi delle parti del corpo.

Il risultato di tutto ciò è molto ovvio: la mia conoscenza dell’olandese aveva più buchi di una forma di groviera, e ho dovuto procedere a ritroso per colmare tutti questi crateri creati dalla troppa fretta di imparare. Uno di questi è la capacità di scrivere, che viene spesso trascurata nei corsi di lingua con troppi studenti forse perché allenarla richiederebbe un grande dispendio di tempo da parte dell’insegnante per correggere i compiti. Il risultato di tutto ciò è che facevo fatica a scrivere una e-mail senza l’ausilio del correttore automatico di Word.

L’opinione altrui

Quando si impara una lingua straniera sui banchi di scuola solitamente le interferenze sono limitate. Per “interferenze” intendo persone diverse dai propri insegnanti che vogliono aiutare lo studente ma che in realtà finiscono per confonderlo alla grande. Così lui sviluppa le sue competenze nella sua bolla fino a quando – con un po’ di shock – si troverà a dover mettere tutto in pratica durante uno scambio o una vacanza studio.

Chi invece impara le lingue sul posto si trova ad aver a che fare subito con persone che solo perché parlano una data lingua credono di poter essere anche in grado di giudicarne la conoscenza negli altri, suggerire metodi e correggere la pronuncia. Sono riuscita fin da subito a tenere a bada i giudizi troppo negativi o troppo lusinghieri e a ignorare i commenti sul metodo, ma mi sono persa nel gorgo degli accenti. Il punto è che in Olanda quasi tutti hanno un accento e molti invece di lasciarmi quello che stavo sviluppando, cioè quello dell’insegnante di quel momento, hanno deciso di impormi il loro. A volte li ho ascoltati e ho modificato la mia pronuncia di certe parole per poi venir nuovamente corretta da altri: “Ma cosa dici?! Non si dice così”.

Gli insegnanti

Ho seguito moltissimi corsi di olandese e avuto tanti insegnanti: alcune fantastiche (tutte donne, che ci posso fare), altri/e meno, perché credevano che farmi leggere libri per bambini pieni di termini non proprio utili nella vita quotidiana (tipo “orco”) fosse utile. Ma il problema principale è che non correggevano i miei errori. Forse non volevano demotivarmi, forse ne facevo troppi e non riuscivano a starci dietro, chissà perché lo facevano. Il problema è che i corsi per adulti solitamente non hanno esami e raramente le persone con cui parliamo ogni giorno ci correggono, così ci ho messo un po’ a rendermi conto della mole di errori che facevo e correre ai ripari è stato più duro di quanto sarebbe stato imparare subito a parlare in modo corretto. Se avete un’insegnante che prende nota dei vostri errori mentre parlate e ve li spiega tenetevela stretta.

Non tradurre

La traduzione è una mia grande passione, ma ho imparato sul campo che non aiuta a imparare bene le lingue semplicemente perché ciascuna è un sistema a sé stante, e tradurre in continuazione rallenta notevolmente il nostro cervello oltre a essere fonte di innumerevoli errori. Vi farò un esempio: a yoga ho notato che ogni volta per chiederci di tenere una certa posizione (sempre scomoda) la nostra insegnante ci diceva “hou vol”. Non mi sono mai chiesta come avrei tradotto questa frase in italiano, l’ho semplicemente collegata a una situazione. Lo stesso ho iniziato a fare con quasi tutte le parole e le frasi di uso più comune. Sono stata aiutata in questo dal fatto che molte delle mie insegnanti di olandese parlavano poco inglese o avevano giustamente poca voglia di tradurre ogni singola parola. Se avevo un dubbio chiedevo: “In quale contesto si usa questa parola?” e loro mi facevano subito un esempio. Per fortuna alcuni libri non hanno le noiosissime liste di parole ma immagini e esempi.

Praticare

Imparare le lingue a scuola è spesso molto noioso semplicemente perché non si vede a volte l’utilità di ciò che studiamo e si pratica troppo poco. Il punto è che provare una conversazione standard con il nostro vicino di banco – che magari è anche la nostra migliore amica – e avere una vera conversazione magari in un contesto che ci agita un po’, tipo dal medico, è diverso. Quando impari la lingua sul posto hai innumerevoli occasioni di praticare subito ciò che hai immediato, il che è una notevole spinta motivazionale. E poi il riscontro ti permette di “correggere il tiro” e magari affinare la tua pronuncia imitando gli autoctoni.

Full immersion

Ammetto che i ragazzi che studiano ora le lingue straniere hanno mille modi per “immergersi” nella lingua grazie a video su youtube, serie TV in lingua originale e musica a volontà su Spotify, ma tutti questi dispositivi hanno il tasto di spegnimento. Ecco, all’estero il tasto di spegnimento non esiste. Ciò vuol dire che anche se hai appena finito di studiare olandese e vorresti solo rilassarti e fare una passeggiata, i tuoi occhi vedranno insegne in olandese, le tue orecchie sentiranno persone parlare in olandese e se vuoi berti una tazza di tè dovrai ordinarla in olandese. La sensazione di essere immerso negli stimoli non è per tutti piacevole all’inizio: alcuni la percepiscono come estremamente stancante e desiderano fortemente poter chiudere il quaderno e lasciare la scuola. Solo che ci abitano nella “scuola”.

Parla come mangi

Sono una traduttrice poco pratica, e ora vi spiego perché. Sono poco pratica perché ho passato anni a studiare libri di teoria della traduzione che l’80% dei traduttori non ha mai aperto. Sono poco pratica perché adoro disquisire di questioni complesse di stili e registri invece che di tariffe. Sono poco pratica perché invece di impiegare le mie energie per trovare clienti disposti a pagarmi a peso d’oro, continuo a investire in formazione. Sono poco pratica perché rileggo sempre molte volte una traduzione e a differenza di molti colleghi non ho mai pensato di un cliente “Tanto non è in grado di capire se c’è un errore”. Sono poco pratica perché ai testi facili da tradurre – e quindi più rapidi da consegnare – preferisco quelli interessanti e stimolanti per la mia creatività, solo che richiedono molto più tempo e non sono pagata a ore. Insomma, sono davvero poco pratica, ma questa è la mia natura.

Poi ho finalmente capito che poco pratica è anche la mia lingua e la mia cultura, mentre quella olandese è estremamente efficiente. Quindi mi trovo a trasferire contenuti tra due sistemi totalmente opposti. Tradurre purtroppo non vuol sempre dire sostituire la parola brood con “pane”. È bello quando è così semplice, si finisce in fretta e ci avanza persino tempo per preparare qualcosa di buono per cena. Tradurre vuol spesso dire far comprendere un concetto a una persona appartenente a una cultura diversa dalla nostra. A volte è come convincere vostro nonno che il sushi è un cibo buono e raffinato: le possibilità di riuscita ci sono ma è dura.

Qualche giorno fa una mia amica ha tradotto un testo di teologia dall’italiano all’olandese, e la risposta dell’editore è stato che era troppo fumoso e quindi, in sostanza, che non si capiva niente. Ho già notato molte volte l’incredibile divario tra le due culture e il modo in cui influenza la comunicazione. Un tipico esempio sono le canzoni: ho spesso provato a far ascoltare ai miei studenti canzoni di cantautori italiani, e la risposta è stata quasi sempre la stessa: “Ma cosa vuol dire? Non si capisce niente!”. Così sono scesa sempre più in basso sulla scala della raffinatezza testuale, ma incontro ancora resistenze. L’ultima volta è toccato a “Per te” di Jovanotti e, arrivati a “è per te il profumo delle stelle” mi hanno fatto notare che le stelle non hanno profumo. Chiaro, Margherita Hack però sarebbe stata più clemente nei confronti di Jovanotti. Ho poi capito che gli olandesi hanno un’enorme difficoltà a capire le metafore e, in generale, discorsi fumosi che non fanno riferimento a oggetti e situazioni tangibili. Questo spiega anche perché i miei studenti chiedono sempre di ascoltare la Pausini e Ramazzotti, perché “Marco se n’è andato e non ritorna più” non lascia dubbi. Prima era qui e adesso è altrove.

L’altra enorme differenza è evidente quando spiego la grammatica. L’insegnante di inglese standard in Italia parla tranquillamente di “ausiliari” e “participio passato” a una platea di studenti il cui inglese non va oltre “the cat is on the table”, ma che hanno consumato così tanti quaderni in analisi logica e grammaticale da conoscere questi concetti meglio delle preghiere. Questo approccio non funziona con gli studenti olandesi: non hanno idea di cosa siano i verbi modali, non capiscono il concetto di passivo e non vedono alcuna differenza tra un verbo transitivo e uno intransitivo. Loro imparano meglio se tenuti all’oscuro da queste parole difficili e poco concrete: tanti esempi, le loro amate liste di parole e frasi fatte. La teoria va menzionata il meno possibile perché fa venire il mal di testa.

Questa differenza va il più delle volte a vantaggio di noi italiani, perché è più semplice imparare l’approccio pratico che fare amicizia con quello teorico. Per fare un esempio, mentre le nostre multe sono costituite da due pagine di burocratese con le uniche informazioni importanti – la cifra e le modalità di pagamento –  rigorosamente al fondo e in caratteri microscopici, le lettere dell’Agenzia delle Entrate olandese sono elementari. Sono costituite da una sola pagina con ben poche parole e la prima riga – sempre in grassetto – recita sempre “Lei deve pagare” o “Lei non deve pagare”. Non sono mai andata oltre la prima riga. Ovviamente i testi in burocratese esistono ma, mentre danno il mal di testa ai locali che non sono abituati a termini astratti e a frasi lunghe più di due righe, noi italiani li maciniamo in totale scioltezza. Ecco, noi facciamo molta più fatica a comprendere i commenti in olandese su Facebook che il burocratese. Così mentre i traduttori olandesi devono presentare ai propri committenti testi per loro illeggibili, io a volte mi faccio scrupoli per la semplicità del linguaggio, che è sempre troppo scarno e diretto per gli standard italiani, così semplice da essere quasi offensivo per i miei connazionali. Mentre quando l’olandese medio legge una traduzione dall’italiano pensa “Non si capisce niente”, l’italiano medio pensa “Ma davvero hanno scritto qualcosa di così semplice e banale?”. Ecco perché, quando possibile, il traduttore deve diventare scrittore e formulare da zero un testo pensato appositamente per il suo lettore.

La semplicità pervade anche il linguaggio orale. Ascolto spesso sia la radio italiana che quella olandese, e la mia ossessione per il linguaggio mi porta a analizzare costantemente l’eloquio di chi parla. Senza per forza arrivare ai livelli eccelsi di Oscar Giannino, che probabilmente utilizza un registro C2 anche quando racconta le barzellette, è evidente che i giornalisti italiani maneggiano con scioltezza discorsi astratti senza i quali probabilmente non riuscirebbero a esprimersi. Al confronto, i giornalisti olandesi sono immensamente più efficienti: frasi corte e di facile comprensione, zero fronzoli e anche alcune espressioni colloquiali. Mentre loro vogliono essenzialmente farsi capire dagli ascoltatori, noi percepiamo l’eleganza non come un inutile orpello ma come qualcosa di essenziale per la comprensione dell’argomento.

In sostanza la differenza tra lo stile di comunicazione olandese e quello italiano rispecchia quella tra le due cucine: una è raffinata e volta a carezzare lo spirito, l’altra è estremamente frugale e ha l’unico scopo di riempire lo stomaco, perché la raffinatezza è in Olanda sempre considerata sinonimo di inefficienza (e quindi da evitare). So che i molti italiani che vivono qui e hanno poco a che fare con la parte più tradizionale del Paese non se ne sono mai accorti, ma le mie osservazioni mi portano inesorabilmente a pensare che i Paesi Bassi per un italiano siano Marte, e viceversa. Le differenze sono così profonde che quando qualcuno mi chiede se sono diventata un po’ olandese mi viene sempre da ridere. “No” è la risposta, perché ci ho provato, ma quando ho capito la direzione che stavo prendendo sono tornata sui miei passi. Non possiamo stravolgere la nostra natura. Molto meglio camminare in equilibrio su un filo tra due culture.

Linguistica-mente

Oggi vorrei portarvi in viaggio nella mia mente. Però non sarà davvero un viaggio tra i miei pensieri perché finirebbe malissimo: ci perderemmo, voi mi chiedereste la strada e io finirei con il dover ammettere di essermi persa pure io. La mia intenzione era un “viaggio linguistico” nella mia mente poiché questo è un ambito in cui mi sento molto a mio agio. Non posso dirvi – né spiegarmi – i contorti percorsi dei miei pensieri ma so benissimo perché uso le parole in un certo modo, e adoro disquisire di lingue, lo farei per ore.

Le parole intraducibili

Le intraducibili sono quelle parole che non hanno un corrispettivo in italiano. Dato che so alcuni traduttori inorridiscono dinanzi al concetto di “intraducibile” chiarisco dicendo che si traducono in base al contesto e alla frase in cui si trovano. Il traduttore non traduce parole ma idee, quindi non teme le parole intraducibili.

La mia parola intraducibile preferita è spannend, che si usa per definire qualcosa che provoca tensione e emozioni forti di genere sia positivo che negativo. Un esame universitario è spannend, così come una operazione chirurgica, ma può esserlo anche un evento positivo come la nascita di un figlio. È semplicemente qualcosa che non ci lascia indifferenti e che ci provoca una reazione emotiva.

Se il traduttore sa come comportarsi in questi casi, lo studente casca sempre dal pero. “Come si dice spannend in italiano?”. Gli spiego le sfumature di significato, i possibili contesti, magari gli chiedo pure di darmi una frase con quella parola che la traduciamo insieme… ma lui non mi ascolta già più. Tiene in mano il telefono e mi dice: “Secondo Google Translate si dice così” con lo sguardo diffidente di chi sta pensando “Fa tutta questa tiritera perché questa parola non la sa”. È successo così tante volte che non mi arrabbio più. Tipicamente dentro di me maledico Google Translate, che pure è uno strumento così utile a volte, e mi chiedo come mai molti non riescano proprio a comprendere cosa è una lingua. I peggiori sono quelli che dicono di parlarne molte (tutte perfettamente, mi pare ovvio) ma sono completamente dipendenti dalle liste di parole, che senza il contesto servono a niente, e da Google Translate. Come si può dire di parlare cinque o sei lingue se non si è ancora capito come funziona la propria?

Le parole che potrei tradurre ma è più facile non farlo

A questa categoria appartengono le parole legate a cose di cui ho scoperto l’esistenza solo all’estero. Il mio esempio preferito sono le pioenrozen, ma molte parole di questa categoria in olandese sono fiori perché in Olanda le bancarelle al mercato sono molto più belle e fornite di quelle italiane, e ho scoperto molte varietà che non conoscevo. A mio parere immensamente più belle dei tulipani, le pioenrozen non sono altro che le peonie, solo che prima di venire a vivere qui non le avevo mai viste, quindi per me non esistevano. Potete correggermi finché volete e costringermi a dire “peonie” ma non mi farete mai cambiare questa abitudine: per me quei fiori si chiamano pioenrozen.

Lo stesso era accaduto in Inghilterra con il bollitore dell’acqua (che per me si chiama ancora e solo kettle) e una grande quantità di verdura di cui prima ignoravo l’esistenza, tra cui parsnip, swede, celeriac, kale e butternut squash. Se a questo punto siete curiosi di sapere di cosa sto parlando, non cercate la traduzione del termine ma andate su Google images. Tradurre è un qualcosa di necessario per comunicare ma il modo peggiore per imparare una lingua, cercate di collegare invece un’immagine a una parola nuova.

Le parole imperdibili

In molti anni all’estero il mio modo di parlare – e non solo quello – è ovviamente cambiato molto. Mi accorgo di fare più fatica a usare il congiuntivo ma non perché lo abbia dimenticato, quanto perché mi fido meno del mio istinto. A forza di sentirmi dire che stando all’estero ci si dimentica la propria lingua, ho iniziato a dubitare del mio uso di congiuntivi e preposizioni e a leggere una montagna di libri tecnici per ovviare a questo problema. Poi ascolto gli italiani alla radio, leggo articoli scritti da giornalisti anche famosi sui principali giornali italiani e mi accorgo che a loro qualche dubbio rispetto alle proprie abilità linguistiche non è proprio mai venuto. Ma io viaggio con l’impostore, che ci posso fare, il dubbio è sempre al mio fianco.

Tuttavia anche se ho cambiato il modo in cui mi esprimo ci sono alcune parole – quasi tutte in piemontese – di cui non posso fare a meno perché esprimono alcuni concetti in modo davvero unico e preciso. Non so voi dove mettete il cibo per portarlo in tavola, e non mi interessano tutte quelle parole complesse e imprecise tipo ciotola, insalatiera, zuppiera e recipiente. Sono una peggio dell’altra e hanno anche un pessimo suono. Io lo metto in un grilet, e basta.

Lo stesso procedimento funziona con i modi dire. Alcuni anni fa ero in un negozio di caffettiere in Olanda e ho chiesto se avessero in vendita filtri della Bialetti. Il commesso molto premuroso ha deciso di spiegarmi anche come si usa: mi ha spiegato fin dove riempire la caffettiera di acqua, quanta polvere di caffè mettere e tutto il resto della procedura. Sono riuscita a non scoppiare a ridere mentre pensavo che vedo qualcuno preparare la moka più o meno da quando sono alta abbastanza da riuscire a guardare cosa avviene sul bancone della cucina. In questi casi c’è solo un commento possibile, e ve lo traduco in italiano per cortesia ma sappiate che in piemontese suona molto meglio: non insegnare a un gatto ad arrampicarsi.

Le parole ibride

Qui entriamo in un contesto davvero horror: mettete a letto i bambini prima di avventurarvi oltre. Dunque, dato che un po’ come delle piante abbiamo messo le nostre radici mediterranee in una terra straniera e con noi non del tutto compatibile, abbiamo iniziato a creare terribili mutazioni paragonabili a quelle che in natura sono causate da radiazioni, inquinamento o dalla mano dell’uomo. Tali ibridi, osceni tanto quanto gli acini d’uva senza seme e i fragoloni senza sapore, tipicamente non vengono condivisi con il resto del mondo. Ebbene sì, ce ne vergogniamo un po’, ma per questa volta faremo un’eccezione.

In Olanda quando viaggiamo in treno non compriamo il biglietto, ma carichiamo una tessera plastificata che funziona un po’ come le tessere delle metropolitane di Parigi e Londra. In questo modo non si perde tempo in biglietteria e se si cambia idea sul tragitto non serve rifare il biglietto. Da qui è nato il neologismo “Hai opladato la OV chip?” (cioè ricaricato la tesserina?). Altri esempi sono “Ti sei opknappata?” (messa in tiro, preparata per uscire) e “Hai sentito, hanno oppakkato un tizio” (arrestato). Mentre questi ibridi osceni sono ironici, e quindi il mio codice etico interno li accetta e perdona, riesco per fortuna a tenermi alla larga dai numerosi obbrobri di cui i miei connazionali si macchiano in continuazione semplicemente perché da traduttrice ho sviluppato una specie di semaforo rosso interno. Uno tra i peggiori è “Ho reagito a una e-mail” causato dalla confusione tra il verbo olandese reageren e quello italiano “reagire”, ma è anche piuttosto fastidioso confondere library con “libreria” e annoy con “annoiare”.

La vera creatività italiana però esce allo scoperto quando cambiamo il significato di termini o espressioni con l’ironia. Per esempio, ci piace prendere in giro bonariamente l’approccio calvinista secondo il quale qualsiasi genere alimentare dal momento in cui ci sfama è buono. Così tra amici ci scambiamo foto delle peggio oscenità – pizze con cavolo e worstje, burro di noccioline all’ananas, pancakes olandesi con formaggio e zucchero… – e commentiamo con “Lekker, hoor” (che buono!), che è diventata per noi un’espressione inadatta a qualsiasi discorso serio sul cibo. Infine l’ibrido peggiore, ma anche il più divertente, avviene quando traduciamo letteralmente in italiano modi di dire olandesi. I miei preferiti sono “Ho fatto un vasetto” (ho fatto un pasticcio) e “Tieni nei buchi che domani c’è lo sciopero dei treni” (tieni presente). In fin dei conti ripetiamo la stessa operazione perversa che tutti gli studenti di lingue del mondo compiono in continuazione – tradurre letteralmente dalla propria lingua – solo che siamo consapevoli del nostro scempio e non rischiamo occhiatacce o prese in giro.