Hello stranger

L’unica straniera nella stanza

Alcuni mesi fa ho letto L’unica persona nera nella stanza di Nadeesha Uyangoda, e ho così potuto vedere il razzismo presente nella società italiana. Lei è una scrittrice italiana nata in Sri Lanka e, a causa del colore della sua pelle, è stata spesso vittima di discriminazione. Nel libro però non descrive solo gli episodi di razzismo plateale ma ci mostra come chi ha la pelle scura venga costantemente, ogni singolo giorno, trattato in modo diverso. Da lei ho capito che anche se gli italiani hanno talvolta le idee confuse rispetto al concetto di italianità (cosa conta davvero: dove si nasce, quale lingua si parla o di chi si è figli?), sono fermamente convinti che un italiano non possa avere la pelle scura.

Non posso in alcun modo paragonare la mia esperienza personale all’estero con la sua nel Paese in cui è cresciuta semplicemente perché nell’Europa del XXI secolo vi sono ancora profonde differenze percepite tra i colori della pelle, e la mia è del tipo “giusto”. Così nessuno mi ha mai controllato i documenti o il contenuto della valigia con “particolare” determinazione nei vari aeroporti in cui sono stata, nessuno mi ha mai chiesto se sono arrivata su un barcone e nessuno ha mai osato fare domande sulla mia fede religiosa, mentre per chi ha la pelle scura in Italia queste situazioni sono molto comuni. Paradossalmente, solo per colpa del suo aspetto, lei si ritrova a essere straniera nel suo stesso Paese. Però, dato che io invece straniera lo sono veramente, vorrei riflettere sull’essenza di questo status e mostrarvi le sue implicazioni nella mia vita quotidiana.

Il colore della pelle

Per una curiosa ironia della sorte, dal punto di vista fisico sono sempre riuscita a passare inosservata più qui in Olanda che nel mio Paese. Infatti, sono alta 1,85 e l’altezza delle donne olandesi è stata la prima cosa ad avermi colpita positivamente delle terre piatte, perché finalmente mi sono sentita “normale”. Qui ho potuto per la prima volta avere una conversazione con una donna senza piegare la testa e non sono mai passata per turista anche quando effettivamente un po’ lo ero. Per esempio, nei miei primi mesi ho notato che nei negozi per turisti ad Amsterdam i commessi si rivolgevano a me in olandese, e in inglese a tutti gli altri. La ragione dietro a questo comportamento è rimasta un mistero finché una commessa a Utrecht mi ha spiegato: “Sei troppo alta per non essere olandese”. Inutile dire che la cosa mi è sempre piaciuta da morire, e mi ha aiutata ad avere un rapporto più sereno con i miei centimetri. Ancora adesso se tengo le mani ben ferme e la bocca chiusa circondata da altre olandesi sono totalmente invisibile. Non vi offenderete se dico che il mio primo pensiero ogni volta che esco dall’aeroporto in Italia è puntualmente: “Welcome to Lilliput”. 

Tuttavia, anche se da zitta e immobile non sembro davvero italiana, una volta rivelata la mia identità anche il mio aspetto estetico magicamente cambia. Così, un paio di volte mi è stato detto che ho la pelle scura anche se, a dire il vero, sono così pallida che faccio spesso fatica a trovare un fondotinta abbastanza chiaro. Questa osservazione mi ha sempre fatta sorridere perché mentre noi italiani siamo sempre considerati scuri di pelle all’estero, prima di venire qui non ho mai associato l’Olanda all’incarnato tenue della ragazza dell’orecchino di perla. Per me le terre piatte erano il Paese di Gullit, Seedorf e Davids, non propriamente persone dalla carnagione lunare. Ma mi sono davvero piegata in due dalle risate quando un vicino di casa ha detto a me e il mio compagno (alto due metri) che: “Si vede proprio che siete italiani”. Si riferiva al nostro innato stile e portamento?

La nazionalità

Nei 12 anni passati all’estero mi sono adattata al nuovo ambiente in una moltitudine di modi, e uno di questi è la mia calligrafia, che ho modificato per rendermi più comprensibile ai miei alunni prima inglesi e poi olandesi. Lo so che pare incredibile, ma il nostro corsivo italiano (specialmente quello maiuscolo) è totalmente incomprensibile agli stranieri, e in Inghilterra mi hanno persino pregata di imparare a scrivere i numeri come loro (il numero uno senza asticella e il nove con solo una barretta dritta) perché altrimenti rischiavo di veder rigettata la mia domanda per il numero assicurativo inglese. Ciononostante, una mia studentessa olandese mi ha detto: “Ma scrivete tutti così male voi italiani?” e ha poi cercato di stabilire una connessione tra la mia calligrafia e il tipo di istruzione che secondo lei avrei ricevuto. Avrei preferito sentirmi dire “Scrivi in un modo che non capisco” perché è possibile che nonostante i miei sforzi il mio stile sia diverso da quello olandese, ma persino un “Elena, scrivi proprio male” sarebbe andato benone. Il punto è che ho capito benissimo che la diversità per certe persone significa inferiorità, e ho imparato ad accettare questo punto di vista con molta ironia. Quello che fatico ad accettare è il continuo mettere la mia nazionalità prima della mia individualità, perché so di essere un’italiana molto atipica, e non vedo come ogni mia caratteristica debba essere legata al posto da cui vengo. Eppure questo della calligrafia è solo un piccolo esempio del modo in cui vengo continuamente considerata uno specchio del Paese in cui sono nata.

Il nome

Ogni volta che mi viene chiesto come mi chiamo mi sento posta davanti a un dubbio amletico: lo storpio io il mio nome o lascio che lo facciano loro? Solitamente propendo per il pronunciarlo bene, e loro lo ripetono mettendo l’accento sulla vocale sbagliata. Alcuni annuiscono facendo finta di aver capito. I meno timidi mi chiedono se sono greca o russa, il che mi dà un’allure esotica interessante perché mi posiziona in Paesi di cui so poco. A volte provo a correggerli: basta spostare l’accento dalla seconda alla prima /e/, ma è tutto inutile, non riescono a percepire la differenza. Quando vivevo in Inghilterra mi ero abituata a sentire così tante versioni diverse del mio nome che mi giravo quando qualcuno chiamava Alan, il trombettista della Big Band in cui suonavo.

Gli stranieri all’estero hanno sviluppato una varietà di tecniche per andare incontro al problema del nome. Mio fratello lo storpia deliberatamente, mentre invece il mio compagno ha tentato di organizzare workshop sulla corretta pronuncia della /z/ in italiano, però ha sempre riscosso poco successo. Una ragazza coreana che frequentava con me il corso di olandese aveva cambiato il suo nome in Jacqueline, ma veniva comunque chiamata dingetje (cioè “cosetta”) dalla nostra insegnante. Onestamente non tutti siamo portati per le lingue e siamo in grado di percepire suoni per noi poco comuni, quindi sentire pronunciare male il mio nome non mi offende. Però c’è un piccolo dettaglio che non capisco: perché se mi dimentico o pronuncio male il nome di uno studente questo mi corregge sempre con fare offeso?

I documenti

Nadeesha Uyangoda parla della via crucis tra documenti vari e permessi di soggiorno che tocca a ciascun immigrato in Italia. Quando ero ancora una studentessa ho lavorato alcuni mesi come interprete e ho accompagnato un ingegnere giapponese in Questura a rinnovare il permesso di soggiorno. Lì ho potuto vedere di persona come cambiano il tono di voce, gli sguardi e le parole usate in base al colore della pelle del richiedente. Ecco, l’esperienza di noi bianchi italiani in Europa è molto diversa perché, anche quando effettivamente c’è qualche disguido, finiamo sempre col riderci sopra sapendo che abbiamo il diritto di stare dove siamo e non ci verrà mai tolto. Per quanto mi riguarda, ogni possibile problema con i documenti si è risolto magicamente da quando ho cambiato la mia patente italiana con una olandese. Prima quando andavo in aziende per tenere corsi di Business English mi capitava spesso di dover mostrare il mio documento, e ogni volta puntualmente si ripeteva lo stesso dialogo con la receptionist che guardava la bandiera italiana in alto a destra sulla mia carta d’identità e mi chiedeva: “Scusa… ma hai detto che sei qui per un corso di inglese?”, “Sì”, “Ah, un’italiana che insegna inglese. È ben strano!”. “Gli italiani non parlano inglese” è diventato quasi un mantra, una frase che mi è stata ripetuta più di “Certo che da voi i ponti van tutti giù”. Ho pensato di tatuarmi addosso i miei certificati, ma ho poi risolto brillantemente il problema procurandomi la patente olandese.

Il sospetto

Talvolta, come spiega molto bene Nadeesha Uyangoda, la discriminazione non c’è affatto, ma noi la vediamo comunque perché siamo diventati sospettosi. Così ho iniziato a detestare gli sguardi di chi si gira per strada o al supermercato quando sente che parlo in italiano con il mio compagno. Forse stanno solo pensando: “Che lingua sarà mai?” o magari persino: “Che lingua bellissima”, o stanno ammirando rapiti il mio cappotto acquistato in Italia. Però io spesso vedo un “Che ci fanno questi qui”, mi irrigidisco e inizio a domandarmi se non ho alzato troppo la voce perché la nostra abitudine di parlare a voce alta è uno dei tratti stereotipici più comuni e, dato che mi hanno sempre detto che siamo i benvenuti purché ci integriamo, certi sguardi mi fanno sempre temere di non essermi sforzata a sufficienza. Così ho iniziato a riflettere in maniera quasi ossessiva sul significato del concetto di “integrazione”, e sono arrivata alla conclusione che mentre per alcuni (mai stranieri) è una parola bellissima, è difficile vedere i confini tra il sentirsi a casa in un posto in cui non siamo nati e il modo in cui noi stranieri cerchiamo a volte ossessivamente di cancellare ogni segno di appartenenza ad altre culture. Prima l’accento, poi i gesti, poi l’abbigliamento, e poi via via tutte le abitudini vengono cambiate nel disperato tentativo di lavare via tutte le etichette. Non sempre è così, ma i confini tra integrazione e assimilazione mi sembrano poco nitidi.

La domanda

Come accade anche a Nadeesha Uyangoda, da quando abito all’estero la domanda che mi viene rivolta più di sovente è “Da dove vieni?”. Segue “Come mai sei qui?” e finalmente si va al punto: “Tornerai mai al tuo Paese?”. Nel suo caso queste domande non hanno alcun senso: è italiana, dove dovrebbe mai andare? Nel caso mio, dato che effettivamente ho più di italiano che di olandese o inglese, la domanda assume un significato meno discriminatorio, ma il suo senso è sempre difficile da cogliere. Ai colloqui la interpreto da sempre con la paura di dare un posto fisso a una che se ne scapperà dopo tre mesi, e tipicamente dico di avere acquistato una casa per dimostrare la presenza di solidi legami – il mutuo – con il luogo in cui vivo. Spesso mi pare solo la domanda di una persona annoiata che in realtà vorrebbe chiedermi la ricetta del ragù. A volte, specialmente quando abitavo a Newcastle e vedevo ogni sabato manifestazioni di scalmanati con la testa rasata che gridavano “Britain for the British”, ammetto di averla interpretata con un “Tornatene a casa tua”. Però una volta in Inghilterra una collega mi ha spiegato che le sembrava strano volessi stare in un postaccio con un clima terribile essendo nata nel paese più bello del mondo, mostrandomi così il lato più gentile della domanda. Il punto è che ho finalmente capito che la vita è come guidare una macchina da rally senza avere la minima idea del tracciato: cerchiamo di andare veloci, ma non sappiamo cosa ci aspetta dietro la prossima curva. Questa domanda non è solo troppo personale, è anche decisamente folle.

L’effetto collaterale

La conseguenza di molti tra questi aspetti ha un nome tristemente famoso: si chiama “sindrome dell’impostore” ed è un problema comunissimo tra noi donne, che cresciamo convinte di non avere qualità sufficienti per ambire a determinati lavori o ruoli e, sicure di fallire, tendiamo spesso a porre limiti alle nostre possibilità senza nemmeno metterci in gioco. Se già il mio genere mi rendeva piuttosto incline a questo tipo di problema, il mio status di straniera lo ha fatto lievitare a dismisura, perché mi porta in qualsiasi istante della mia vita quotidiana a dubitare di me e delle mie capacità. Dall’aspetto fisico all’accento, dai miei documenti a un gesto che mi può essere sfuggito, tutto mi ricorda continuamente la diversità anche quando onestamente non si vede, perché se non la notano gli altri la sento io.

Così ho dovuto imparare a fare i conti con la mia “amica” sindrome ogni giorno e trovare infiniti trucchetti mentali e non (i miei amati certificati) per fregarla e farla stare zitta. Però gli stereotipi e certi sguardi non fanno che darle manforte, quindi anche se non voglio dare la colpa all’ambiente in cui vivo, devo ammettere che influisce sul problema. Anche se noi expat non parliamo spesso di certe sensazioni, credo di non essere l’unica ad andare in giro con questa amica ingombrante perché ogni tanto mi è parso di intravederla anche in altre straniere come me. Per esempio, l’ho vista in abbondanza alle lezioni di olandese, dove se già dopo il terzo corso le donne sono il 70% degli studenti, i corsi successivi al livello B2 sono sempre composti quasi esclusivamente da rappresentanti del gentil sesso, che si appuntano su un taccuino verbi che non useranno mai (e di cui pure i nativi ignorano il significato) e passano ore a fare esercizi di pronuncia per non farsi più prendere in giro dai propri mariti olandesi. Stranamente però alla sindrome non piacciono i social, e credo di aver capito il perché: lì hanno posto solo le foto di spiagge tropicali, addominali scolpiti e bicchieri di Spritz, e lei stonerebbe. Però forse ogni tanto bisognerebbe mostrare anche qualcosa di meno fotogenico.