Galateo minimo per le interazioni con gli stranieri

A volte nel mio blog ho parlato della difficoltà a avere conversazioni piacevoli con alcuni autoctoni, ma devo ammettere che le domande inopportune raramente sono intenzionali. Dalle interazioni con i miei vicini di casa – perlopiù over 60 sempre vissuti in una cittadina con pochi stranieri – ho capito che le loro gaffe sono semplicemente il risultato di una scarsa abitudine ad avere a che fare con il misterioso “altro”.

Questo problema mi ha fatto venire in mente una vecchia Bustina di Minerva, la rubrica che teneva ogni settimana Umberto Eco sull’Espresso. Ricorderete tutti quando Berlusconi chiamò il neoeletto Obama “abbronzato”. Le reazioni alla sua ennesima uscita infelice furono come al solito diverse: chi si vergognava, chi diceva che non era affatto una gaffe e non c’era nulla di offensivo, chi pensava che Berlusconi fosse proprio un simpaticone. Eco spiegò che l’espressione non era inequivocabilmente offensiva e chiaramente non era questo l’intento. Il punto è che cosa diciamo (e come lo diciamo) svela al mondo il nostro intimo più dell’abito che indossiamo.

In questo caso, alcune frasi lasciano intendere che certe persone non hanno avuto molto a che fare in vita loro con persone provenienti da altri Paesi. Non c’è nulla di offensivo, intendiamoci, magari alcuni avrebbero voluto viaggiare molto o lavorare in un ambiente internazionale e non ci sono riusciti, ma certamente questo è il risultato. Lo straniero tipicamente capisce la situazione, porta pazienza e non commenta, però probabilmente cercherà di evitare contatti con quella persona in futuro se possibile. Quindi, se volete (o dovete) avere molto a che fare con stranieri ecco il mio piccolo vademecum.

1. “Può ripetere per favore?”

A volte lo straniero vi chiede di ripetere cosa avete detto non perché ha problemi con la vostra lingua, ma perché non ha sentito. Molte possono essere le cause: problemi di udito, era distratto, avete bofonchiato, c’è molto rumore o la stanza ha una pessima acustica. Spesso la reazione del locale è di passare all’inglese. Non fatelo: se ha problemi con la lingua ve lo dirà lui.

2. Tutto il mondo (o quasi) è paese

La scrittrice nigeriana Chimamanda Ngozi Adichie in un suo discorso per il TED ha raccontato di quando, appena arrivata negli Stati Uniti, la sua compagna di stanza americana le ha prima fatto i complimenti per il suo inglese e poi le ha chiesto di farle ascoltare “la sua musica tribale” e lei le ha allungato una cassetta di Mariah Carey.

Allo stesso modo gli olandesi spesso si stupiscono quando dico che in vita mia ho ascoltato più musica in inglese che in italiano. Una volta una signora mi ha chiesto stupita: “Ah, come mai non ti piace Eros Ramazzotti?”. La globalizzazione è arrivata anche nella provincia italiana da cui provengo ed è forse la causa dell’iscrizione di molte ragazze alla facoltà di lingue straniere. Ma gli esempi sono molti e anche non attinenti alla musica perché, per esempio, pare strano che una italiana non vada a messa la domenica e parli bene l’inglese. Il punto è: non esotizzate lo straniero, spesso è davvero molto simile a voi.

3. “Tu dove andare?”

Una volta sul treno in Italia ho sentito una distinta coppia italiana parlare in modo davvero bizzarro con un ragazzo straniero: lui si esprimeva in un italiano molto semplice ma non troppo scorretto, loro hanno improvvisamente smesso di declinare i verbi. Sembrava di guardare un cartone animato.

A me è invece capitato che il locale si mette a fare gesti mentre parla. “Siete venuti in macchina?” mi chiede, e intanto muove le mani come se avesse un volante. Mancava poco che facesse “brum brum”. Avevo appena letto e firmato un complicatissimo documento sulla privacy in olandese e questo avrebbe potuto convincere la persona davanti a me delle mie doti linguistiche. E invece no. Magari non parlate come un politico della prima repubblica a uno straniero appena arrivato, ma evitate gesti sciocchi e sgrammaticature. Se scandite bene le parole e tenete sotto controllo la velocità lui vi capirà.

4. “Come vanno le tue lezioni di lingua?”

Nove anni fa questa era una domanda logica, ora non più. Molti però me la fanno ancora credendo che il motivo per cui parlo poco è che non ne sono in grado. E invece ci sono almeno centinaia di altre ragioni: perché sono timida, perché a volte non so cosa dire, perché “bel tempo, vero?” non mi pare una conversazione, perché alcune persone mi stanno antipatiche, perché a volte sono stanca o di fretta… Però spesso ciò porta il mio interlocutore a pensare che non so parlare la sua lingua e si infila in una domanda un po’ inopportuna.

5. Il nativesplaining

Dopo il mansplaining c’è anche chi vuole spiegare allo straniero cose che sa già (in Piemonte diciamo “non insegnare al gatto ad arrampicarsi”). Mi è successo la prima volta quando vivevo in Inghilterra da poco tempo. Ero andata con alcune colleghe allo Starbucks, e una di loro mi ha vista in difficoltà davanti al menù. Era la mia prima volta nella famosa catena di caffetterie, e mi ero persa tra dimensioni, sciroppi e frappuccini… così lei ha deciso di aiutarmi. “That’s a ‘latte’. It means ‘milk’”. Meno male che è venuta in mio soccorso, da sola non ci sarei mai arrivata!

Poi anni dopo un commesso in un negozio di caffè mi ha spiegato come funziona una Bialetti e l’amministratore di condominio mi ha svelato l’esistenza delle stufette elettriche. Ecco, dello straniero sapete poco: potrebbe avere un livello di istruzione minimo oppure una cultura sterminata. Voi limitatevi alle spiegazioni base e entrate nei particolari solo se ve lo chiede.

6. “Sei alta per essere italiana!”

Nei miei quattordici anni di permanenza all’estero ho capito che per gli stranieri le italiane sono tutte come Monica Bellucci. Diciamo che non è un brutto stereotipo… però non corrisponde molto al vero. Così molti hanno commentato con stupore la mia statura (1,85m) o mi hanno detto che ho la pelle scura anche se a dire il vero sono più pallida di molti olandesi.

È senza dubbio vero che in Italia la mia statura è più straordinaria che nei Paesi Bassi, ma è anche vero che noi italiane non siamo tutte le classiche donne con riccioli scuri e vestito a sirena che vediamo nella serie TV del commissario Montalbano. Quindi meglio evitare commenti sul fisico perché sono spesso basati su stereotipi che poco hanno a che fare con la realtà. Io, per dire, prima di trasferirmi pensavo che in Olanda tutti fossero come Ruud Gullit e Clarence Seedorf, gli unici olandesi che mi venivano in mente.

7. Parlate la stessa lingua

A volte lo straniero in Olanda chiede – e giustamente ottiene – di parlare inglese. Spesso però parla olandese e si vede rispondere in inglese. Questo mi è successo innumerevoli volte, e talvolta mi sono trattenuta a fatica dallo scoppiare a ridere perché ho assistito a conversazioni di parecchi minuti in cui lo straniero e il locale parlavano due lingue diverse. A volte poi – sì, nelle piccole città accade – il locale arrancava in inglese e lo straniero era perfettamente a suo agio in olandese.

Non passate automaticamente all’inglese pensando di fare un favore allo straniero. Potrebbe non parlarlo, o magari sta cercando di fare esercizio nell’altra lingua. È persino possibile che lo parli molto meglio di voi, e questo vi espone a una potenziale figuraccia che vi sareste potuti evitare.

8. Per nome e cognome

Nei miei quattordici anni di vita all’estero molti hanno cercato di decifrare la mia provenienza basandosi sul mio nome e cognome. Il risultato è stato piuttosto divertente, perché ho capito che chi si chiama Elena deve essere per forza di origine greca o slava. Il mio cognome invece mi ha portata nei paesi baschi e una volta persino nei Caraibi.

Il punto è che i popoli da sempre si spostano e i cognomi non sono in grado di aiutarci a capire la provenienza di qualcuno. Per fare qualche esempio, un mio compagno di classe a un corso di olandese si chiamava Witteveen ma era equadoregno, ma conosco francesi e brasiliani con cognomi tedeschi e olandesi con cognomi indonesiani. Invece di provare a indovinare la provenienza è meglio chiedere.

9. La corretta pronuncia

A proposito di nomi e cognomi… non abbiate paura di chiederci la pronuncia. Sappiamo benissimo che alcune combinazioni di suoni (tipo il /ch/ in italiano) sono difficili per gli stranieri, ma ci secca sentire pronunciare male il nostro nome ogni giorno da persone a noi vicine. Siamo pazienti in alcune situazioni – stiamo sempre sulle spine nelle sale d’aspetto perché non sappiamo mai come verrà storpiato questa volta e se riusciremo a riconoscerlo – ma ci piace quando colleghi e vicini pronunciano bene il nostro nome. Chiedeteci di spiegarvi come si pronuncia, lo faremo volentieri, anche più volte.

10. Ti spiego il tuo Paese

I media stranieri amano occuparsi dell’Italia specialmente quando c’è di mezzo qualche nefandezza. Nei miei numerosi anni all’estero ho visto innumerevoli reportage dei telegiornali sulla Costa Concordia, sulla mafia e sui ponti crollati, pochi sulle nostre eccellenze. Ciò porta gli stranieri a pensare di aver capito proprio tutto dell’Italia (e a volte anche a credere che il problema principale dell’Italia siano tutti i suoi abitanti).

Così capita a volte che il giorno dopo un evento che ci ha posti sulle prime pagine di tutti i quotidiani esteri l’autoctono provi a spiegarti il tuo Paese: “Ahh, io lo so perché il ponte di Genova è crollato”. Dato che si stavano ancora cercando le vittime questa frase mi è sembrata piuttosto inopportuna. Ma lo stesso avviene puntualmente dopo ogni elezione politica, quando l’italiano all’estero vorrebbe darsi malato per non incorrere nei commenti dei colleghi che vanno due settimane in vacanza in Italia ad agosto, ma si credono fini conoscitori di questioni che sfuggono alla maggior parte di chi nella penisola è nato e cresciuto. Leggete e cercate di informarvi da fonti attendibili, ma non spiegate allo straniero il suo Paese. Piuttosto, se la situazione lo permette (cioè, se lo straniero ne ha voglia), chiedetegli di spiegarvelo lui. Potrebbe raccontarvi un punto di vista privo di stereotipi al quale altrimenti non avreste accesso.

Open to suggestions

Alcune settimane ho letto un post su Facebook di Lorenzo Biagiarelli, un food blogger italiano che apprezzo molto, che mi ha fatto riflettere. Il suo post partiva da una foto che ritraeva Oprah Winfrey in una stanza d’albergo con davanti a sé una pagnottona dall’aspetto molto invitante. La regina dei talk show americani è stata a Fiuggi per un percorso benessere e ha deciso di portarsi a casa il più insospettabile dei souvenir preso da un comune panettiere del posto. Mentre quando le star hollywoodiane vengono nei luoghi più turistici della penisola la nostra stampa dedica loro molta attenzione (pensate a JLo a Capri o ai compleanni di Madonna in Puglia, per esempio), la sua foto è stata totalmente ignorata. Da qui parte la seguente constatazione: se le star non si comportano in modo stereotipato e prevedibile – vanno in luoghi iper-turistici e si fanno fotografare davanti a piattoni di spaghetti – noi non le prendiamo nemmeno in considerazione. Quindi, a suo parere, siamo noi italiani a fornire agli stranieri gli stereotipi sul nostro Paese.

Questo post mi è piaciuto perché adoro chi mette in dubbio le mie certezze. Il punto è che per anni ho spiegato ai miei conoscenti stranieri che devono informarsi sui prodotti tipici del luogo o, se proprio non hanno voglia di leggere una guida, dovrebbero almeno guardare la mappa dell’Italia prima di andarci. E invece no: mangiano pizza e spaghetti al pomodoro ovunque e portano sempre a casa come souvenir limoncello comprato in negozi per turisti e cantuccini (che loro chiamano “biscotti”). In parte capisco il loro ragionamento, che segue un modo di dire molto comune in Olanda: wat de boer niet kent, dat eet hij niet. In poche parole, vuol dire che il contadino non mangia ciò che non conosce, e riconosco lo stesso comportamento nei turisti italiani che vanno a pranzo al McDonalds ad Amsterdam o mangiano terribili pizze surgelate piuttosto che avventurarsi in un ristorante di cui non comprendono perfettamente il menù. Ma il dubbio che mi è rimasto è: siamo davvero noi italiani a fornire loro gli stereotipi, o sono loro ad essersi fatti autonomamente un’idea dell’Italia semplificata e irreale?

Mentre mi trastullavo con il mio dilemma del genere “è nato prima l’uovo o la gallina” è arrivata la campagna del Ministero del Turismo “Open to Meraviglia”. La prima reazione è stata chiaramente di profonda perplessità – ho letto i testi e le traduzioni e ho dovuto dare ragione alla fazione del “mio cugino con 30.000 lire lo faceva meglio” – poi sono riuscita a rifletterci sopra, e mi è toccato ammettere che Biagiarelli aveva ragione: gli stereotipi sono tutti Made in Italy. Il sito è costruito con testi banali (chatGPT avrebbe fatto meglio) e immagini stereotipate nemmeno fatte da fotografi italiani in luoghi perlopiù già battuti dal turismo di massa.

La stessa Venere-influencer è un enorme stereotipo: non ho nulla contro i cosiddetti “imprenditori digitali” ma osservando le loro foto e i loro video non riesco a fare a meno di notare che le loro vacanze sono persino più prevedibili delle mie. Fanno foto tutti nella stessa posa, vestiti tutti nello stesso modo con brand bene in vista e trucco e parrucco identico. Persino i loro souvenir sono stereotipati: perché mentre io almeno compro artigianato locale o prodotti tipici, loro assaltano le boutique di marchi internazionali all’aeroporto. Il cibo nei loro piatti poi deve essere riconoscibile: chi va in Spagna si fa fotografare con la paella e non con il salmorejo o le melanzane al miele, in Scozia si cerca di inserire nell’inquadratura una pint di ale invece di un ben poco fotogenico haggis. Il concetto che sembra emergere è che la vacanza non è per noi, per dare ristoro e bellezza ai nostri sensi, ma per mostrare al resto del mondo cosa crediamo di essere.

Lo stesso vale anche per i luoghi. Capisco molto bene che il sito del ministero voglia proporre borghi caratteristici e scorci instagrammabili e facilmente riconoscibili: non consiglierei a nessuno una vacanza nella periferia delle grandi città del nord Italia. Però resta un dubbio amletico: non è che questi luoghi sono sovrapponibili tra di loro? Perché le coste incantevoli sono presenti anche in Croazia, in Francia o in Turchia, e anche la Svizzera ha le montagne. Perché dovrebbero venire proprio da noi a farsi queste dannate fotografie per i propri profili social?

Infine si pone la questione turismo sostenibile, che a mio parere potrebbe anche chiamarsi “turismo piacevole”. Per farvi capire cosa intendo farò un esempio: l’anno scorso sono andata in vacanza nel nord della Francia e ho visitato da brava turista Mont Saint Michel. È stato bello, certo, ma se mi chiedete quali sono stati i migliori ricordi della mia vacanza io vi dirò Saint Malo, Cancale a Trouville, perché in questi posti ho potuto camminare sulla spiaggia senza essere schiacciata tra i turisti, ho comprato della frutta strepitosa al mercato e degli ottimi dolci in una piccola panetteria. Lo stesso pensano molti olandesi che conosco, che non vanno in vacanza nei luoghi suggeriti dal sito del Ministero ma si fanno guidare dai consigli di parenti e amici, da programmi televisivi olandesi o da serie TV. Così, anche se sono molti quelli che vanno a Capri per poi farlo pesare ai propri colleghi al ritorno, ne conosco tanti che scelgono valli piemontesi piuttosto isolate e poco chic come la Val Maira o la Val Gesso, che adorano il lago Trasimeno e l’entroterra marchigiano e fanno sempre una sosta nel Monferrato prima di varcare la frontiera. Noi possiamo anche proporre la costa, ma loro non amano fare il bagno nell’acqua salata: vogliono fare sport (soprattutto con la bici elettrica) e vedere le colline dalla camera d’albergo. Non potete dire loro cosa è bello e cosa non è lo è perché questa è una categoria che ha a che fare con la cultura, e a una diversa cultura corrisponde una diversa idea di piacevolezza.

E poi dovremmo davvero ringraziarli se decidono di non andare ad affollare ulteriormente i nostri fragili paesini delle Cinque Terre perché l’altra questione che si pone è: ha senso incoraggiare i turisti ad andare in posti che stanno già boccheggiando sotto una massa di persone ingestibile? Nel suo libro Grand Hotel Europa lo scrittore olandese Ilja Pfeijffer si scaglia aspramente contro il turismo di massa che ha reso invivibili alcune strade di Amsterdam e che soffoca città come Venezia. I turisti da lui descritti si comportano da ospiti indesiderati: non mostrano rispetto nei confronti dei luoghi, credono che tutto sia a loro permesso e non lasciano nemmeno molto denaro al proprio passaggio (anche se a dire il vero non credo che il denaro possa giustificare lo scempio che è stato fatto in alcuni posti in Italia e altrove). Davvero vogliamo attirare ancora più instagrammatori d’assalto nelle nostre città? In alcuni casi il problema non è nemmeno l’inciviltà dei turisti ma semplicemente il loro numero, che ha un impatto negativo sul luogo e sulla nostra percezione di una certa esperienza.

Come al solito non ho la soluzione al problema, semmai posso proporre qualche timido suggerimento. Il primo è uno dei principi base del marketing: cerca di far notare al tuo potenziale cliente i tuoi punti di forza unici. Il secondo è studia il tuo cliente: magari anche ciò che credi di sapere di lui si basa su stereotipi, magari devi conoscerne la cultura e la lingua per poterne interpretare al meglio i gusti. Il terzo è: considera bene quale tipo di turista vuoi attrarre e qual è il tuo obiettivo, perché forse prima di trasformare un borgo medievale in Torremolinos bisognerebbe riflettere sui rischi e gli svantaggi dell’operazione. Direi che tutti questi consigli si possono riassumere in uno solo: un lavoro di qualità richiede tanta pianificazione e studio, e se volete saperne di più vi consiglio di leggere questo splendido articolo di Annamaria Testa, che davvero è una maestra nel settore. Dato che mi piace concludere con una nota positiva, vorrei far notare come questo caso ci abbia insegnato moltissimo: abbiamo imparato che i traduttori automatici e l’intelligenza artificiale non sono nulla senza la mano dell’uomo, e forse qualcuno (ne dubito un po’ ma lo spero) ma capito che le persone che lavorano guardando fuori dalla finestra non sono facilmente sostituibili, ma meritano rispetto e riconoscimento.

La lieta novella

Le grandi novità che vi ho preannunciato nel mio post natalizio non sono altro che il più radicale dei cambiamenti: l’arrivo previsto tra qualche settimana di una piccola italiana a casa mia. Superata la soglia delle settimane a rischio ho deciso di comunicarlo al mondo facendo due liste: “persone a cui non vedo l’ora di dirlo” e “persone a cui è meglio dirlo prima che se ne accorgano da sole”. Arrivato il momento di affrontare la seconda categoria mi sono arrivati numerosi commenti a mio parere influenzati dalla profonda differenza culturale tra Italia e Olanda.

Questione di numero

“Ma è solo il primo?”. Questo commento mi ha fatto capire che la mia età, che credevo fosse ignota ai più, non è sfuggita a nessuno. Così pare piuttosto strano che alla mia età – no, non ve la dico – io sia in dolce attesa e che sia solo al primo. Questo è dovuto al fatto che le famiglie qua tendono a essere molto più numerose che in Italia e il desiderio di maternità emerge molto prima.

Dato che so cosa state pensando vi precedo: no, non è facile mettere su famiglia in Olanda. È vero che gli studi finiscono un po’ prima, non serve affatto una laurea (e men che meno una specialistica) per avere un buon impiego ed è più facile trovare un lavoro a tempo indeterminato, ma non è una passeggiata. Innanzitutto gli asili sono costosi e i posti scarsi, le case (sia in affitto che in vendita) poche e con prezzi in continua salita. Poi i nonni, colonna portante del welfare italiano, spesso abitano altrove e non visitano i propri figli ogni fine settimana come in Italia né sono disposti a fare i babysitter. Il congedo di maternità è inferiore a quello italiano (le donne hanno diritto a quattro mesi in totale tra prima e dopo il parto), anche se poi chi lavora per aziende può usufruire di vari permessi extra. Forse l’unico vantaggio olandese è che il part-time è più diffuso per le donne, ma anche qui rischiano di ricevere rifiuti (o di mettere a repentaglio la loro carriera) nel momento in cui lo chiedono. E poi al momento di dare la lieta novella anche qui accadono cose spiacevoli: ci sono colleghi che dicono distrattamente: “Un lavoro come questo non puoi farlo se decidi di avere figli” e libere professioniste che vedono i propri contratti svanire nel nulla. Qui e ovunque le donne che decidono di mettere su famiglia vanno incontro a resistenze e, qui e ovunque, le affrontano come meglio possono.

Il problema linguistico

“Ma in casa parlate italiano?!”. Appena ho rivelato che anche il papà è italiano e che quindi in casa non si parlerà olandese è emersa la questione linguistica, e qualcuno in vena di elargire consigli/preoccupazioni (questi due elementi si fondono in uno quando si parla di gravidanza) mi ha detto di fare attenzione a non dare la precedenza alla mia lingua rispetto a quella del Paese in cui vivo.

Questa domanda in realtà mi ha ricordato qualcosa che le mie amiche straniere con figli mi hanno spesso menzionato: i contrasti alla scuola materna. Mentre le mamme straniere sono fiere del bilinguismo dei propri pargoli, le maestre olandesi spesso dicono loro con aria preoccupata: “Suo/a figlio/a ha un vocabolario più limitato dei suoi compagni di scuola”. Questa “povertà” di linguaggio viene chiamata taalachterstand e, anche se sono in molti ad aver cambiato idea (perché anche molti figli di olandesi hanno un vocabolario limitato), viene ancora tradizionalmente associata al bilinguismo. Ciò che non riesco a capire è come possa essere un problema il fatto che il vocabolario di un bambino, che consiste di un certo numero di parole che cresce di anno in anno, sia suddiviso tra due lingue diverse. Mentre noi italiani lodiamo – e segretamente invidiamo – le famiglie bilingui, qui si organizzano corsi estivi di recupero e i bambini stranieri vengono spesso mandati da specialisti per migliorare la pronuncia e affinare lo spelling, così da superare senza problemi i test di accesso alle scuole superiori e non rischiare di dover andare in una scuola indesiderata. Così l’asticella viene fissata allo stesso livello per tutti e lo straniero deve faticare più dei suoi compagni di corso per raggiungerla, mentre la sua conoscenza dell’altra lingua invece di un vantaggio diventa un handicap.

Ma… poi?

“Ma poi tornate in Italia?”. Scoperta la nazionalità del mio compagno è scattata questa domanda, e devo dire che se in passato l’ho trovata inappropriata ora si inserisce perfettamente nel solco di questioni che mi pongo da tempo, del tipo “Come si cresce tra due culture estremamente diverse tra di loro?” e “A quale delle due culture si sentirà di appartenere? E come sarà il suo rapporto nei confronti dell’altra?”.

La risposta a queste domande non c’è. Conosco “ibridi” culturali felici e sereni, e altri che hanno subito discriminazioni e sono cresciuti con l’amaro in bocca. Una vocina mi dice insistentemente che essere un “miscuglio” è un superpotere, ma un’altra mi ripete che alla prima discriminazione mi sentirò terribilmente in colpa per aver fatto subire a qualcun’altro le conseguenze di una scelta che non ha preso. Sento anche che in fase adolescenziale proverà un gran rifiuto per la cultura dei genitori (nonché per i genitori, mi pare ovvio) e, visto che con il cognome non si può fare nulla, cercherà almeno di storpiare il nome italianissimo che le è stato appioppato per integrarsi meglio. E io capirò il suo comportamento, anche se mi dispiacerà un po’.

La grande rivelazione

Una novità del genere non è facile da comunicare al resto del mondo: servono pause e grandi respiri. Però, nella maggior parte dei casi la reazione di tutti è stata felice e sorridente. Una piccola minoranza ha reagito in modo scortese (qualcuno lo definirebbe “sincero e diretto”), ma anche questo è stato utile. Il problema è che, proprio come Montale aveva bisogno degli occhi di sua moglie per vedere davvero il mondo, anche io ho da sempre un po’ di difficoltà a capire gli animi e spesso tendo a considerare amiche persone che non lo sono affatto. Ma dover comunicare il messaggio più importante di tutti mi ha aiutata a vedere meglio chi mi circonda e, onestamente, a essere più positiva e ottimista, perché mi sono resa conto di conoscere molte persone buone e gentili. Così il mio proposito per la nuova avventura sarà di iniziare a guardare il mondo come una macchina fotografica raffinata, selezionando manualmente le aree che voglio a fuoco e quelle che invece devono rimanere sfocate o sparire dalla mia vista.

Riflessioni e piccole rivoluzioni

È giunto il momento, puntuale come l’acquisto di una agenda nuova e di un abbonamento in palestra, del post di fine anno. Anche se gastronomicamente impegnativo, questo periodo di profonda pigrizia, letture piacevoli e forse troppe aspettative in realtà è necessario per fermarci un attimo e, dando una fugace occhiata alle nostre spalle, per cercare di capire se la direzione in cui stiamo andando ci soddisfa. No, non vi voglio convincere a fare autocoscienza, ma ogni tanto qualche riflessione fa bene, aiuta a evitare di continuare a prendere strade sbagliate.

Per quanto riguarda il mio blog, ho capito che il post che è piaciuto di meno in assoluto è stato quello in cui ho spiegato quanto poco sanno gli italiani dell’Olanda e raccontato a grandi linee la vicenda della protesta degli allevatori olandesi. È divertente che proprio questo post non sia stato apprezzato, perché è stato come sentirmi dire “Non ne sappiamo nulla e ci va bene così”. Avevo già capito che parlare dell’Olanda agli italiani non funziona – una volta mentre stavo provando a raccontare la storia di Amsterdam una si è alzata senza dire nulla e se ne è andata altrove – ma non desisterò. No, non mi offendo se non mi leggerete, capisco bene il vostro punto di vista. In fin dei conti mi piace scrivere, quindi lo faccio volentieri anche solo per i pochi interessati.

L’articolo che mi ha dato più soddisfazioni – sotto forma di commenti – è stato quello sugli stereotipi negativi della stampa internazionale. Beh, volete sapere una cosa? Lo avevo scritto abbastanza di getto appena uscito l’articolo dell’Economist per poi lasciarlo a “marinare” per un mesetto circa. La marinatura è una fase pericolosissima per un post perché si rende necessaria quando sento di aver detto cose “troppo forti”, e penso di dover attenuare gli aggettivi o levare frasi troppo oneste che potrebbero turbare gli animi. La realtà è che non turberei proprio nessuno, e che a volte gli articoli rischiano pesanti mutilazioni. Poi avevo pensato di non postarlo perché temevo di incitare all’arroganza (da me definita “sana”), e mi sembrava un po’ too much. Dopo un po’ l’ho ripreso – ancora miracolosamente integro – e capito che quel tipo di arroganza che incoraggio in realtà è orgoglio e consapevolezza delle proprie capacità, e quindi è sanissimo. Ho capito che d’ora in poi devo far marinare solo carne e pesce, e dare un po’ più di libertà ai miei pensieri.

Ho trattato molto più di vicende personali, e mi sono accorta che questi post sono stati anche i più apprezzati. Non era difficile prevederlo poiché nell’era dei social c’è un interesse morboso per la quotidianità altrui, e le mie riflessioni astruse risultano più comprensibili se poste sul piano personale. Però non è stato facile parlare di me stessa, perché da buona piemontese ho la riservatezza al vertice dei miei valori, e ogni volta che vado nel personale procedo più lentamente, soppeso le parole e non riesco a fare a meno di espungere dettagli e limare aggettivi. Anche se però decisamente controproducente nel nostro periodo storico, ho imparato ad amare la mia piemontesità. So che non è apprezzata dai miei conterranei e stupisce gli stranieri che in una italiana si aspettano l’incarnazione dello stereotipo fatto di gestualità eccessiva, schiamazzi e tarantelle, ma mi importa poco. È passato il tempo dell’adattamento alla realtà che mi circonda, è il momento che il mondo accetti ciò che sono.

Quest’anno ho parlato molto più di linguaggio del solito. Era inevitabile: la lingua è il mio mezzo preferito di percezione e analisi di ciò che mi circonda. Ascoltando come le persone si esprimono vedo i rapporti di forza e la violenza, analizzando l’uso delle parole in diversi contesti scopro la base culturale di un Paese, osservando le sfumature che certi termini hanno nelle diverse lingue comprendo le differenze tra le diverse culture. Alcuni dicono che la matematica governa e permette di capire il mondo ma io sono da sempre impermeabile ai numeri, mentre le parole sono una gradita compagnia con cui mi trovo perfettamente a mio agio. Chi viaggia con me sa di dover accettare i miei lunghi (talvolta eterni) sproloqui su etimologie e questioni culturali in qualsiasi momento, ma oramai ne è quasi lieto. Questa estate in Francia ho ascoltato per caso i dialoghi di altri italiani seduti al ristorante ai tavoli accanto al mio, e sono giunta alla conclusione che cenare con una linguista sia una benedizione. A meno che non vi interessino il calciomercato, i pettegolezzi di quartiere o i motori, si intende.

Contemporaneamente mi sono occupata meno di stereotipi, e penso che ne parlerò sempre meno in futuro. Il punto è che il mio rapporto nei loro confronti è cambiato nel corso del tempo. All’inizio mi offendevano a morte perché mi sembravano un giudizio nei miei confronti secondo il sillogismo: se dici che gli italiani sono disonesti e pigri e sai che sono italiana allora stai dicendo che sono così anche io. Poi ho iniziato a immaginare di essere un’antropologa, e appena scattava il momento pregiudizio tiravo fuori il mio immaginario taccuino (non mi serve, ho una memoria formidabile) e mi annotavo tutto per poi selezionarlo e analizzare le parti più interessanti. Ora sono passata alla fase finale: gli rido in faccia. Alcuni stereotipi che sento sono così ridicoli da non meritare alcun tipo di trattamento: non voglio memorizzarli né parlarne, né scriverli in alcun luogo per condividerli con voi perché sarebbe uno spreco di energia enorme. Ho ripensato al saggio consiglio che Virgilio dà a Dante in presenza degli ignavi e capito che davvero ho qualcosa di meglio da fare che prestare attenzione alla stupidità umana. Però devo dire che anche questa categoria di luoghi comuni sono utili a modo loro, perché mi hanno aiutata a identificare senza ombra di dubbio gli stupidi. Il fatto è che tendo a dubitare molto delle mie percezioni e voglio sempre dare a qualcuno una seconda chance. In presenza però di certe affermazioni mi si accende la lampadina e finalmente metto da parte ogni dubbio: “Ah, ok, è uno stupido”.

L’anno che verrà sarà per me un anno di grandi cambiamenti. Se anche voi credete, o sperate, sia così vi auguro di riuscire a tuffarvi in quel che avverrà senza avere (troppa) paura. So bene che lasciarci alle spalle la vita che conosciamo è difficile che chi – come la sottoscritta – non è molto ottimista di natura, ma dobbiamo per forza conservare un po’ di fiducia nel futuro. Se, per esempio, il vostro cambiamento è un trasferimento all’estero, vi esorto a non pensare troppo a cosa potreste perdere ma a ascoltare il vostro istinto e, se lui vi sta indicando questa strada, a fare un passo verso l’ignoto. Come avrete notato dai miei post non idealizzo mai l’esperienza da emigrata, e ogni volta che leggo di italiani che dicono di aver trovato all’estero la libertà rido e me li immagino con la Polizia alle calcagna (l’Italia non è l’Iran e le parole andrebbero pesate bene). Però conosco anche persone che, proprio come la povera Eveline di Joyce, sono rimaste in una polverosa città di provincia a pensare “Se solo avessi avuto il coraggio di partire”. I rimpianti fanno malissimo, e guardare avanti è meglio che restare rivolti verso il passato a rimuginare. Qualsiasi siano le sfide che vi attendono, vi auguro un anno di grande forza e coraggio.

* Nessun paragrafo è stato maltrattato nella revisione di questo pezzo.

Circostanze italiane

Un mese circa fa si è ripetuto un rituale a cui sono, purtroppo, ben abituata. La rivista inglese The Economist ha pubblicato un editoriale secondo il quale i recenti guai della Gran Bretagna l’avvicinerebbero all’Italia, corredato dall’originalissima e nient’affatto stereotipata copertina con Liz Truss e un forchettone di spaghetti. Dov’era la necessità di menzionare l’Italia, non bastava dire “Ce la passiamo male?”. No, il tutto si spiega con l’inguaribile arroganza di cui sono affetti molti Paesi del Nord Europa.

I giornali italiani ne hanno parlato con toni piuttosto scandalizzati, con alcune eccezioni. Nell’articolo di Federico Fubini del Corriere si spiega che in realtà la perfida Albione se la passa notevolmente peggio di noi. Innanzitutto, non abbiamo mai licenziato un ministro dell’economia dopo 38 giorni e un premier dopo 45. In secondo luogo, il tracollo che la sterlina ha subito alcune settimane fa sarebbe impossibile in Italia perché abbiamo l’euro. Poi la penisola è il settimo esportatore mondiale e mantiene le sue quote di mercato, mentre la Gran Bretagna è il quattordicesimo e ha visto le sue vendite crollare dal 2017. Mentre Fubini tratta questioni economiche, John Foot su Internazionale parla di quelle politiche. Per esempio, abbiamo una costituzione che ha evitato un’eccessiva concentrazione del potere, un senato eletto dagli elettori (no, i Lord non sono eletti) e un capo di stato eletto dal Parlamento che non è al di sopra del diritto come un re. Infine, John Foot ricorda come menzionare la cucina sia un modo facile per parlare alla “pancia” dei lettori inglesi, che conoscono l’Italia soltanto come turisti. Ma L’Italia ha saputo mostrare notevoli abilità anche dal punto di vista tecnologico sviluppando, per esempio, un’ottima rete di treni ad alta velocità: chi ha avuto la disavventura come la sottoscritta di viaggiare spesso in Inghilterra in treno ha rimpianto moltissimo i treni italiani.

La questione mi ha fatto venire in mente un documentario del 2012 di Bill Emmott (ex direttore dell’Economist) che si chiamava Girlfriend in a coma. La fidanzata in questo caso era l’Italia – Paese che l’autore diceva di amare molto – che era a suo parere in un coma profondo dal punto di vista non solo economico ma anche politico e sociale. All’epoca mi era piaciuto molto, ma ero ancora nella fase in cui mi sarei fatta convincere di qualunque cosa dal Paese che mi ospitava: che dovevo sentirmi fortunata per essere dov’ero, che ero in debito e che comunque prima o poi avrei ottenuto un successo sfolgorante semplicemente perché non ero più in Italia. Questo è l’effetto di una sindrome che colpisce quasi tutti gli emigrati e il cui effetto dura per un numero variabile di anni. Per fortuna questa fase è finita e ho riacquistato la capacità di essere più oggettiva. Osservando i movimenti e le parole di Cameron già anni fa era possibile intravedere lo sfacelo all’orizzonte in Gran Bretagna. Poi l’isola per cui provo ancora un grande fascino ha deciso di fare harakiri, e i vari leader da Cameron in poi – tutti upper-class e cresciuti tra scuole private e università prestigiose – hanno dimostrato la loro incapacità. L’Inghilterra è un Paese in cui il tipo di rapporto fra gli appartenenti alla classe alta e quelli delle classi popolari è lo stesso che c’è in natura tra un koala e un orso polare. Ciò implica una difficoltà enorme a prendere decisioni giuste per tutti, e ciò significa che a mio parere anche Rishi Sunak, che ha dichiarato in un’intervista di non avere mai avuto amici provenienti da famiglie operaie, non ha grandi possibilità di riuscita.

Tornando al rapporto dell’estero con il nostro Paese, ho riscontrato la stessa arroganza molte volte anche qui in Olanda. Innanzitutto, ricordo la copertina del Telegraaf di un anno fa intitolata Napolitaanse toestanden cioè “Circostanze napoletane”. La circostanza in questione si è verificata quando l’incaricata di condurre i colloqui per mettere insieme una coalizione di governo (ci hanno messo quasi un anno prima di trovare una quadra) scopre all’improvviso di avere il Covid. Scappa dalla riunione ma tiene gli appunti sotto un braccio, pericolosamente rivolti verso il pubblico che assiste alla scena. Un fotografo scatta una foto, fa un ingrandimento e scopre fior di intrallazzi per liberarsi di un politico scomodo. Forse bastava un “Figura di m…” ma il Telegraaf ha deciso di tirare in ballo Napoli.

Obbietterete “Ma quelli sono giornali, devono fare titoli in grado di attirare l’attenzione”. Effettivamente il Telegraaf è un giornale di pessima qualità noto per titoli provocatori tipo Libero in Italia (solo che ha una tiratura molto maggiore), ma non sono davvero le copertine il problema. Ciò di cui non mi capacito non è nemmeno il desiderio di accanirsi contro il Paese in cui vanno in vacanza quanto il non riuscire a vedere cosa li circonda. Volete qualche esempio? Da maggio l’aeroporto di Amsterdam è in crisi profonda perché manca il personale dei controlli di sicurezza. Il tutto ha portato a code infinite e alla cancellazione di molti voli. Una sorte simile è toccata ai treni: se già c’erano problemi prima (i treni olandesi non amano il ghiaccio, la neve, le foglie e le temperature superiori ai 30 gradi) ora manca pure il personale, così molti treni sono stati cancellati e tanti altri accorciati, e trovare un posto a sedere in certi orari è sempre una sfida.

Eppure solo due settimane fa un mio studente ha detto che non viaggerebbe mai in Italia in treno, perché certamente dei treni italiani non c’è da fidarsi. Ma ho sentito affermazioni simili rispetto a così tanti ambiti e situazioni (ospedali, aeroporti, scuole, uffici…) da immaginarmi i loro viaggi in Italia come dei safari in una giungla in cui da un momento all’altro potrebbe spuntare fuori un leone e divorare tutti. Se l’Italia è davvero un luogo pericoloso abitato da creature infide, inaffidabili e totalmente incapaci, perché rischiano così tanto e vi si avventurano? Sono forse a caccia di emozioni forti?

Credo che dietro questo atteggiamento vi sia un po’ di invidia nei confronti dell’Italia, ma in tutta onestà sono soprattutto io a invidiare molto l’atteggiamento nord-europeo, perché credo che questo mix di arroganza (“Noi siamo i migliori”) e di miopia (“Qui va tutto bene”) sia eccezionale, ti dà uno stato d’animo sicuro e orgoglioso con il quale si affrontano meglio le situazioni difficili. Soprattutto, invidio questa profonda fiducia nel proprio Paese e nelle proprie capacità, e so per esperienza personale che è spesso il principale segreto dietro al successo di individui e gruppi. Il punto è che l’impegno non è nulla se la sindrome dell’impostore ci segue ovunque andiamo, se guardiamo agli altri sempre con l’atteggiamento di chi non ha fatto i compiti. Così se c’è qualcosa che davvero dobbiamo imparare dai nostri vicini nordeuropei è un po’ di orgoglio misto a sana arroganza.

Il Paese invisibile

Dopo aver parlato a lungo dall’Italia vista da fuori, per una volta ho deciso di volgere il mio sguardo nell’altra direzione, per guardare l’Olanda dall’Italia.

Mi tocca iniziare dalle basi: non si chiama Olanda. Holland (rispettivamente divisa in nord e sud) è solo il nome di una provincia del Paese, quella in cui si trovano Amsterdam, Rotterdam, l’Aia e la maggior parte delle città visitate dai turisti. Il Paese in realtà si chiama Paesi Bassi. Avevo un contatto su Linkedln – una signora italiana sposata con un olandese – che ogni volta che doveva criticare un articolo scritto da qualche conterraneo iniziava pressappoco così: “Non sai nemmeno che non si dice Olanda ma Paesi Bassi! Incredibile!!”. Spaventata da questa abbondanza di punti esclamativi ho iniziato a dire e scrivere Paesi Bassi sempre e in ogni caso. Per esempio, quando amici italiani mi hanno chiesto l’indirizzo ho specificato “Paesi Bassi”, e subito mi è stato detto: “Ah, scrivo Olanda o l’impiegato alla posta non capisce”. A questo punto ho avuto la conferma che l’obiettivo principale della comunicazione è farsi capire dagli altri, non puntualizzare l’ignoranza altrui, così sono passata a usare sempre il termine Olanda.

I luoghi comuni sull’Olanda variano probabilmente da Paese a Paese. Mi pare di aver capito che per gli inglesi è il Paese del formaggio, ma per noi italiani nessun altro Paese è gastronomicamente degno di attenzione al di fuori del nostro. Così l’Olanda è per noi il Paese dei tulipani e dei mulini a vento ma, soprattutto, la capitale europea delle droghe e delle prostitute. Il punto divertente è che non conosco davvero nessuno che frequenti (neanche sporadicamente) coffeeshop e, per dire, nella città in cui abito non ce n’è nemmeno uno. Per quanto riguarda la prostituzione, a parte i rarissimi e folcloristici quartieri a luci rosse, non noto differenze rispetto al resto d’Europa. Certo, non capita per fortuna di trovare prostitute ai lati delle strade provinciali come in Italia, ma non ho mai notato atteggiamenti particolarmente libertini. In realtà abito piuttosto vicino alla Bijbelgordel (letteralmente “cintura della Bibbia”), una zona i cui abitanti sono particolarmente religiosi e considererebbero peccaminosi probabilmente già solo i pranzi della domenica italiani. Per esempio, una cittadina qui vicino con 57.000 abitanti ha una chiesa da 2.550 posti che è diventata ora troppo piccola, e i fedeli si stanno organizzando per costruirne una più grande. Chiaramente in questo posto il quartiere a luci rosse e il coffeeshop non sono considerati bisogni primari.

Se già le caratteristiche del luogo non sono note agli italiani, quelle degli olandesi sono avvolte nella nebbia. Una volta a lezione ne ho discusso con i miei studenti olandesi. Prima ho spiegato cosa pensiamo dei cugini francesi, degli svizzeri e via dicendo, e poi loro mi hanno elencato i loro pregiudizi nei confronti dei loro vicini di casa. “E di noi?” mi ha interrotta a un certo punto un signore “cosa pensano gli italiani di noi?”. “Niente” ho dovuto rispondere “gli italiani non vi considerano proprio”. È calato il silenzio. Ho capito che avrebbero preferito sentire cattiverie incredibili nei loro confronti piuttosto che scoprire di non esistere per un altro popolo europeo. In parte capisco il punto di vista italiano: l’Olanda è un Paese piccolo, abitato da soli 17 milioni di persone e non confinante con l’Italia. Aspetti che possono diffondere anche molto a distanza la fama di una nazione sono a mio parere lingua, musica, cinema o cucina, ma questi non hanno avuto particolare fortuna qui. Le uniche eccezioni sono l’arte, che è però una passione molto elitaria, e il calcio, che effettivamente era la principale ragione per cui gli italiani visitavano Utrecht degli anni ’90 (speravano invano di incontrare Van Basten). Ora però gli anni d’oro del calcio olandese sono tramontati e sono molti gli italiani che a mio parere non saprebbero nemmeno posizionare le terre piatte su una cartina geografica.

In parte l’indifferenza degli italiani è spiegabile molto facilmente facendo riferimento alle informazioni che ricevono – o, per meglio dire, non ricevono – dai giornali. Perché, secondo i giornali italiani, i Paesi Bassi non esistono. Ogni qualvolta c’è una tempesta nel Mare del Nord i giornali descrivono i disagi in Francia, Inghilterra e Belgio e ignorano del tutto l’Olanda. La morte del giornalista De Vries, un grande shock qui, è stata dapprincipio quasi totalmente ignorata dai giornali italiani fin quando Roberto Saviano ha raccontato chi era in TV e, in un articolo davvero formidabile tradotto poi anche in olandese, ha spiegato il ruolo che giocano attualmente i Paesi Bassi nel mercato del narcotraffico mondiale.

Quest’estate poi ho avuto l’ennesima conferma di quanto inesistente sia l’interesse dei giornalisti italiani nei confronti dell’Olanda. Da giugno la protesta degli allevatori olandesi (che qui chiamiamo boeren) ha ripreso vigore. Devono ridurre drasticamente il numero di capi e qualcuno dovrà probabilmente chiudere la propria azienda per abbassare il livello di sostanze azotate nell’ambiente, che ha raggiunto livelli preoccupanti. La protesta in realtà era iniziata ben prima della pandemia, e il primo ministro Rutte aveva cercato di risolvere il problema abbassando il limite di velocità sulle autostrade. Resosi conto dell’inutilità della misura, ha deciso di affrontare il problema per le corna – in questo caso si può davvero dire così – e gli allevatori hanno reagito in modo un tantinello veemente. Per dire, questa estate hanno occupato le autostrade coi trattori, sbarrato le carreggiate con cumuli di letame e lastre di amianto, minacciato le aziende che sono state chiamate per andarlo a rimuovere e bloccato i maggiori centri di distribuzione dei supermercati. Infine, hanno iniziato ad appendere ovunque bandiere olandesi all’incontrario e minacciato di marciare sull’aeroporto di Amsterdam. Tutto ciò che ho trovato sulla stampa italiana sull’accaduto è questo articolo, che arriva con mesi (non giorni) di ritardo, dice poco e inizia pure con uno stereotipo sbagliato (è il Paese dei tulipani, non dei papaveri).

Perché l’Olanda sia così tanto fuori dal mirino dei giornali italiani non mi è del tutto chiaro dal momento che, per esempio, le proteste dei gilets jaunes francesi erano state seguite. Certo, gioca un ruolo il fatto che nel Paese si parli una lingua ignota ai più e che costringe quindi i giornalisti a fare affidamento sugli articoli della stampa inglese. Credo però che lo scarso interesse della stampa nei confronti dell’Olanda sia soprattutto la conseguenza di quello degli italiani, e ovviamente ne è anche la causa. Cioè, esattamente come i giornalisti olandesi amano aggrapparsi agli stereotipi quando parlano del resto del mondo, quelli italiani raccontano solo ciò che i propri lettori possono trovare interessante e si aspettano già di sentirsi dire. Il risultato è che il poco che gli italiani sanno sull’Olanda è che “sicuramente si mangerà male ma si starà meglio che da noi”, quadro che definisce in realtà qualsiasi Paese a nord delle Alpi.

E poi come colpevolizzare gli italiani in Italia di poco interesse verso l’Olanda quando nemmeno quelli che abitano qua la conoscono? Già mi ero trovata davanti questo problema prima di trasferirmi nelle terre piatte, quando dopo aver detto: “Abito in Inghilterra” subito mi sentivo chiedere “Ah, in che zona di Londra?”. Però così come Londra non rappresenta bene l’Inghilterra, Amsterdam non è l’Olanda, ma raggruppa comunque la stragrande maggioranza degli stranieri che abitano in Olanda. Chiacchierare sull’Olanda con loro è talvolta difficile. Per esempio, è difficile convincerli che ci sono olandesi che non parlano inglese e posti caratterizzati da una mentalità piuttosto conservatrice e tradizionale. In definitiva non hanno nemmeno modo di capire cosa accade nel resto del Paese perché molti non hanno mai cercato di imparare l’olandese, ma si sono convinti che conoscere Amsterdam basti esattamente come gli uomini nel mito della caverna di Platone credevano che quel riflesso sulla parete fosse tutta la realtà. Capisco molto bene il loro punto di vista: Amsterdam è così eccitante, perché mai attraversare le colonne d’Ercole e avventurarsi in quel mondo inesplorato che sta al di là dei suoi confini?

In realtà mi piacerebbe molto esprimere un giudizio controcorrente e fare una specie di elogio dell’ignoranza, una lode ai video ampiamente presenti sui siti dei principali quotidiani italiani con orsi che si fanno il bagno e altre amenità. Quanto vorrei fare un applauso a chi mi direbbe volentieri: “Non voglio sapere cosa succede in Europa, a me interessa il divorzio tra Totti e Ilary”. Però sono troppo dibattuta. Una volta credevo che lo scopo principale del nostro cervello fosse immagazzinare tutto lo scibile umano. Con gli anni ho capito che la nostra testolina non è poi così capiente, e ora so che di solito chi ci dice di sapere tutto di qualsiasi cosa sta facendo una supercazzola. Bisogna selezionare, prendersi delle belle pause quando necessario, e avere il coraggio di dire: “Guarda, vuoi vedere un video con dei gattini?” quando qualcuno cerca di insegnarci qualcosa che davvero non ci interessa. Però d’altro canto non riesco a fare di meno di pensare che a volte un po’ di sforzo sia necessario, perché il nostro continente è così strettamente interconnesso che le vicende nazionali hanno spesso un effetto domino al di là dei confini, e questa scarsa conoscenza della realtà che ci circonda è uno dei combustibili su cui fanno affidamento i populismi. In sostanza, dovremmo tutti provare almeno un po’ di attrazione per la folle proposta di Ulisse e spingere il nostro sguardo un po’ più in là.

You can hear it in my accent when I talk…

Alcuni mesi fa ho parlato della strada tortuosa che percorrono gli stranieri che vogliono imparare la lingua del posto in cui vivono. Il problema è che non basta imparare la pronuncia, la grammatica e accumulare un vocabolario sufficiente a gestire situazioni e registri diversi, perché resterà sempre il marchio d’infamia dell’accento. Per accento non intendo una pronuncia sbagliata ma semplicemente un modo “strano” di articolare alcuni suoni, ed è destinato a non andarsene. Si può affinare, sistemare e correggere, ma a meno che non decidiate di comunicare per mezzo di cartelli, l’accento resterà con voi e sarà più efficace di un passaporto per fare indovinare la vostra nazionalità agli altri.

Quando abitavo in Italia non avevo mai riflettuto sull’accento. Ne possedevo uno senza esserne consapevole, e pensavo che fosse semplicemente un nostro tratto distintivo come la forma delle mani o il colore degli occhi. Poi in Inghilterra ero troppo presa dall’imparare a distinguere quelli presenti sull’isola per pensare al mio. Ovviamente ne avevo uno quando parlavo inglese, ma mai nessuno me l’ha fatto notare o mi ha detto che era un problema. Ho iniziato a riflettere sul mio accento quando il mio olandese è diventato buono a sufficienza da permettermi di condurre lunghe conversazioni in lingua e, soprattutto, di capire bene le conversazioni altrui. Solo allora ho capito quanto la questione qui nei Paesi Bassi sia sentita.

Alcuni mesi fa un tweet è stato ampiamente dibattuto: Dawid Walentek, professore universitario polacco, doveva essere intervistato da una radio olandese per parlare della sua ricerca. Dopo un primo colloquio ha ricevuto una e-mail dalla radio che gli diceva che il suo accento era troppo forte e avrebbe distratto gli ascoltatori, e la sua intervista è stata negata. “Purtroppo – hanno spiegato gli speaker – non siamo la televisione”. Infatti alla televisione nei Paesi Bassi vengono inseriti i sottotitoli ogni qualvolta a parlare è uno straniero o un belga della zona fiamminga, dove la lingua peraltro è la stessa. L’aspetto comico sta nel fatto che quando in un programma c’è una comunicazione tra un belga e un olandese, i sottotitoli appaiono solo mentre parla il belga, anche se l’interlocutore olandese interagisce senza fare alcuna fatica. Ma il fiammingo è davvero così incomprensibile? Usano alcune parole un po’ diverse, talvolta i verbi sono disposti in un altro modo e pronunciano alcune vocali e consonanti in modo diverso, ma la differenza è certamente paragonabile a quella tra l’inglese britannico e quello americano, o tra la lingua parlata a Londra e quella di Edimburgo. Ma perché se i londinesi capiscono John Bishop e la presidente scozzese Nicola Sturgeon, gli olandesi non riescono a capire chi abita in Belgio? Un valdostano sentirebbe mai il bisogno di sottotitoli per seguire le puntate dell’Ispettore Montalbano?

Un’altra riflessione sull’incredibile importanza data dall’accento in Olanda mi è stata proposta da Sifan Hassan, che ha vinto l’oro nei 5.000 e i 10.000 metri ai giochi di Tokyo l’estate scorsa. Come vi suggerirà il nome, Sifan non è nata in Olanda, ma vi è arrivata da adolescente e qui è cresciuta. Alla televisione abbiamo visto un’intervista in cui lei sorridente e ancora ansimante per lo sforzo raccontava la sua esperienza. Però, invece di farla parlare ancora della sua impresa l’intervistatore ha spostato l’attenzione sulla musica che si sentiva nello stadio: “La riconosci?” le ha chiesto. Era una canzone di un gruppo rock popolare nella sua regione, e un ottimo pretesto per investigare il suo senso di appartenenza al Brabante e al Paese di cui porta i colori. Alcuni giorni dopo su un giornale arriva un commento di un lettore che rimbalza rapidamente sui social: “Ora – dice un tale Wim – potrà concentrare tutte le sue energie nella pronuncia dell’olandese”. Nella stessa estate in cui atleti simbolo come Dafne Schippers ed Epke Zonderland lasciavano il Giappone a mani vuote, lei portava a casa tre medaglie di cui due d’oro, ma ahimè nessun metallo prezioso può cancellare l’onta del suo accento.

Se pensate che l’ossessione olandese per l’accento riguardi solo la loro lingua vi sbagliate di grosso. Dal momento in cui sono tutti convinti di parlare perfettamente inglese, amano correggere – ma talvolta dovrei usare il termine “ridicolizzare” – gli accenti altrui. Da anni noto che ogni volta che mostro ai miei studenti un video in italiano in cui qualcuno usa una parola in inglese scatta la risatina. Alcuni mesi fa ho sentito persino dire che i Maneskin tentano di cantare in inglese ma non ne sono in grado. Però Iggy Pop non sembra averlo notato. E non mi pare che dai palchi su cui si sono esibiti negli Stati Uniti sia arrivata alcuna forma di protesta o critica per la loro pronuncia. A dire il vero quando sono stati intervistati sulla TV olandese molti hanno fatto notare come l’inglese dei musicisti fosse meglio di quello della presentatrice olandese, ma pare che il luogo comune sia rimasto. Gli stereotipi non muoiono mai, e quello della scarsa predisposizione italiana per le lingue è destinato a restare.

Alcuni mesi fa ho visto su Twitter commenti di madrelingua inglesi che spiegavano come gli olandesi correggano anche la loro pronuncia inglese. Così ho capito che l’ossessione per l’accento è una specie di sport nazionale ed è credo legata alla percezione che vi sia una pronuncia giusta e una sbagliata e, chi non ha la stessa pronuncia degli olandesi è certamente dalla parte sbagliata. Ho avuto un’altra prova a supporto della mia tesi quando ho sentito studenti dire che gli insegnanti di lingue straniere olandesi sono meglio di quelli native perché non hanno un accento e sono quindi più facili da capire. Evidentemente non hanno compreso che qualunque insegnante madrelingua nasconde il proprio accento e parla lentamente con i propri studenti. E non hanno nemmeno pensato che, in fin dei conti, se non capiscono potrebbe non essere colpa dell’insegnante.

Il mio atteggiamento nei confronti dell’accento ha seguito lo stesso percorso del mio processo di integrazione. Inizialmente mi concentravo sul parlare senza gesticolare troppo, leggevo in modo ossessivo le pagine online di OnzeTaal (il corrispettivo olandese dell’Accademia della Crusca) e consideravo di contattare un logopedista. Il problema è che purtroppo l’accento varia anche in base a come percepiamo l’interlocutore, quindi in situazioni di forte agitazione le vocali italiane tendono a uscire comunque allo scoperto. Poi, quando ho percepito quanto sottile è il confine tra integrazione e assimilazione, ho ricominciato a gesticolare a piacimento e a preoccuparmi meno dell’opinione altrui. “Be yourself, no matter what they say”.

Non ci son ladri in Olanda

Due anni fa mi trovavo in vacanza in Calabria a casa di un amico. Alle due di notte arriva una telefonata: era il nostro vicino di casa che ci avverte che c’è stato un furto a casa nostra in Olanda. Nell’agitazione totale – nostra ma anche sua – riesco a capire che i nostri ladri hanno lasciato dietro i nostri computer e mi tranquillizzo in parte. Blocco le carte di credito e insieme al mio compagno decidiamo di continuare la nostra vacanza quasi come se nulla fosse accaduto. Dico quasi perché il giorno del ritorno passo l’intera durata del viaggio dall’aeroporto a casa a pensare a come erano fatti i miei orecchini preferiti, perché ne vorrei ricomprare un paio uguale dato che sicuramente li hanno presi e ci tenevo tanto.

Arrivata a casa mi accorgo che i miei ladri hanno pessimi gusti. Hanno visto e ignorato gli orecchini e la bottiglia di Barolo in bella vista sulla libreria, ma hanno preso un chilo di parmigiano stagionato 24 mesi dal frigo. I vicini di casa sono lì con noi per fornire supporto morale, ma onestamente saremmo noi a dover supportare loro, perché mentre noi scherziamo sul furto del formaggio e sulle cose che non hanno preso, loro ci fissano seri. Nel complesso, il dispiacere per i pochi oggetti sottratti è compensato dalla gioia per il danno limitato.

Il giorno dopo telefono a mia mamma e le racconto tutto. “Ma come è possibile?” mi dice “Anche lì rubano? Credevo che non ci fossero ladri lì!”, e a me viene da canticchiare “Non ci son ladri in Olanda” con la melodia di America in West Side Story. No, ci son ladri pure qui. Però noi italiani siamo così abituati all’idea di poter essere derubati da non spaventarci più di tanto. Anzi, a dire il vero mi sono quasi divertita a indagare sul motivo per il quale non hanno nemmeno toccato le chiavi di riserva della macchina. Sapevano che non c’era? Oppure non volevano rubare una macchina? Mi sono sentita Montalbano e mi sono presa la soddisfazione di mimare la scena con gesti da attrice consumata.

Finito di individuare gli oggetti mancanti andiamo alla stazione di Polizia, ma sotto casa incontriamo il nostro nuovo vicino con tanta voglia di fare due parole. Dato che il furto era stato comunicato con una e-mail a tutti i condomini pensiamo voglia chiederci informazioni al riguardo. Invece no. Prima ci chiede che lavoro facciamo e da dove veniamo. Poi, anche se parliamo olandese, decide di sfoggiare il suo inglese molto claudicante. Infine, conclude il tutto con un “Welcome to the Netherlands” che mi lascia un po’ sorpresa e divertita. Sorpresa perché ci abitavo già da tre anni, ed essendo cittadina europea non ho mai sentito il bisogno di annunci ufficiali o permessi per stabilirmi in un Paese comunitario. Divertita perché è curioso sentirsi dare il benvenuto mentre stai andando a fare una denuncia per furto.

Il nostro incontro con il poliziotto è andato secondo le aspettative: ha preso i nostri dati e risposto alle nostre domande. Vi state chiedendo se la refurtiva è stata recuperata? Certo che no, ma abbiamo messo una serratura migliore e capito che tutto il mondo è paese. Mentre il terrore serpeggiava nel nostro condominio, siamo riusciti a fare come se nulla fosse accaduto e, quando due settimane dopo il fattaccio i nostri vicini ci hanno fatto notare che c’era stato un nuovo tentativo di furto – qualcuno aveva tentato di forzare la porta principale del condominio con un piede di porco – abbiamo spiegato loro: “Non è lo stesso che è venuto da noi, quello si è arrampicato sulla grondaia. Probabilmente questo teneva la panza” dando così a tutti un piccolo assaggio di ironia italiana e soprattutto la conferma che siamo persone strambe.

Avete sempre pensato che i ladri siano una specie autoctona italiana? All’inizio anche io, e infatti posso dirvi che all’estero ho fatto cose che mai avrei fatto in Italia. In Inghilterra mi è capitato di lasciare lo zaino con il mio laptop sul sedile del treno mentre andavo a sistemare la valigia in fondo al vagone, in Italia non avrei nemmeno accettato di andarmi a sedere lontano dalla mia valigia. In Olanda ho spesso lasciato la bici incustodita senza averla legata, anche se molti mi hanno sconsigliato di farlo perché non esiste quasi nessuno qui a cui non sia mai stata rubata nemmeno una bici. Il punto è che non ho mai fatto queste cose in Italia solo perché sono cresciuta con la convinzione che gli italiani siano geneticamente predisposti alla disonestà, ma probabilmente non sarebbe successo nulla comunque.

Vorrei invitarvi a una riflessione: dove posizionereste l’Italia su un grafico che raffigura i dati sui furti in appartamento in tutta Europa? Credo la mettereste ai primi posti mentre, secondo voi, agli ultimi posti si trovano i Paesi nord-europei. E se vi dicessi che invece secondo i dati Eurostat Italia e Olanda sono davvero molto vicine? E se vi dicessi che la vostra convinzione secondo la quale non ci sono ladri – e problemi in generale – all’estero è falsa? Spesso le nostre percezioni del pericolo sono basate sulla nostra incredibile mancanza di fiducia nel nostro Paese e nella certezza che all’estero non esistano ladri e problemi. Così anche quando non ci sono pericoli evidenti, ci comportiamo come ci fossero, e magari passiamo la vita a sognare il perfetto estero. Che non esiste.

Gli stranieri e i politici italiani

Oggi vorrei tornare alla questione che mi ha fornito lo spunto iniziale per questo blog: “Cosa pensano di noi gli stranieri?”. Chi mi fa questa domanda solitamente si dà anche una risposta senza lasciarmi riflettere: “Spaghetti, pizza e mandolino, vero?”. Non so bene cosa voglia dire pensare di qualcuno “spaghetti”, perché non è una frase di senso compiuto. Però posso dire che a volte pure quell’idea senza senso degli spaghetti è più piacevole di ciò che pensano davvero. Insomma, è giunto il momento di parlare di politica.

Il mio primo lavoro all’estero è stato l’insegnante di italiano in una scuola privata spersa nella campagna del Somerset. Ricordo ancora benissimo il mio primo incontro con il collega di letteratura inglese: mi avevano invitata alla cerimonia per l’inaugurazione dell’anno scolastico, che si sarebbe tenuta nella bellissima cattedrale di Wells. Prima della cerimonia i colleghi mi invitano a prendere un caffè con loro – sì, nelle cattedrali inglesi spesso c’è una caffetteria – e un tipo si avvicina, mi tende la mano e mi chiede (ovviamente in inglese): “Ah, sei italiana? E cosa ne pensi delle ronde leghiste?”. Faccio lo sguardo del capriolo che fissa immobile i fari dell’auto. Capisce cosa sto pensando: “Sorry, deve essere un argomento imbarazzante”. Il caro collega poi ha recuperato la mia considerazione quando mi ha detto di essere un grande fan di Dante, ma il primo incontro è stato tragico.

Negli anni successivi è arrivato il peggio: una sfilza incredibile di domande fatte a volte con curiosità ingenua ma spesso con un pizzico di perversione e tanta voglia di mettermi in imbarazzo. L’argomento è sempre lo stesso: Berlusconi. Di lui mi hanno chiesto come hanno fatto gli italiani a votarlo, se fa ancora le sue feste assatanate (la parola “bunga-bunga” è tra le parole in italiano più note all’estero, credo stia per scalzare “lasagna”), quanti anni hanno le sue innumerevoli amanti, se è davvero così come appare sui giornali esteri e perché si tinge i capelli. Ho tollerato pazientemente le domande finché almeno Silvio faceva parte del governo e poi, quando è uscito dalla maggioranza, ho pensato: “Troveranno qualche altra sciocchezza da chiedermi, se lo dimenticheranno”. E invece no, anche ora che la sua influenza sul panorama politico italiano si è notevolmente ridotta, Berlusconi è una delle persone che vengono più frequentemente associate all’Italia. Ora la domanda è: “Ma come fa a essere ancora lì?”, e tipicamente mi chiedo: “Lì dove? Dobbiamo mandarlo via come abbiamo fatto con i Savoia per farvi contenti?”. Il problema è che la vera domanda che molti vorrebbero pormi, ma che è sempre ben nascosta dietro le altre in quanto un pochino proibita, è: “Ma come avete fatto a essere così sciocchi da votarlo per tutti questi anni?”.

Credo che i media esteri siano in buona parte responsabili della situazione. Ho tentato di contare i libri scritti su di lui in Italia e all’estero negli ultimi trent’anni, ma ho lasciato perdere. Perché poi ci sarebbero gli articoli di giornale, e poi i documentari e i servizi dei telegiornali, tutti strutturati in modo tale da sottolineare la depravazione del politico e solitamente incentrati sui particolari più scabrosi. Per fortuna, ho trovato un’eccezione. In Proeftuin Italië gli storici olandesi Pepijn Corduwener e Arthur Weststeijn raccontano il berlusconismo fin dalla sua nascita e mostrano come l’Italia sia semplicemente il luogo in cui vengono “sperimentati” fenomeni che poi si spandono per il continente o persino in tutto l’Occidente. Così, mentre sono in molti a vedere Berlusconi come l’archetipo del tipico italiano superficiale, macho e poco rispettoso delle regole, pochi altri hanno compreso che è semplicemente stato il creatore di trend quali la personalizzazione della politica e la scomparsa dei partiti tradizionali, sostituiti da movimenti che promettono di incarnare i valori e il linguaggio dell’uomo comune.

Tuttavia, credo che la considerazione che i media e i cittadini esteri hanno della politica italiana non cambierà mai, e a mio parere ciò è dovuto anche agli indubbi vantaggi degli stereotipi, che ci aiutano a capire il mondo senza fare troppa fatica. I Paesi e le loro relative culture sono davvero troppi per poter leggere saggi storici su ciascuno, mentre gli stereotipi ci permettono di incasellare tutti i popoli e le loro caratteristiche in modo semplice e veloce, e vengono utilizzati anche dai giornalisti. Infatti, mentre quelli italiani – esterofili proprio come noi – descrivono le meraviglie del misterioso estero ed elencano le magagne del proprio Paese, i corrispondenti esteri cercano meticolosamente conferme ai loro luoghi comuni forse perché stupire il proprio pubblico sarebbe difficile e anche in parte controproducente. In fin dei conti gli stereotipi sono rassicuranti: cosa pensereste a scoprire che anche in Svizzera i treni sono talvolta in ritardo? Sareste contenti o pensereste “Neanche in Svizzera i treni sono più puntuali! Dove andremo a finire?”. Al mondo serve un posto in cui i treni sono sempre puntuali. E allo stesso modo servono luoghi che incarnino ogni possibile bruttura della società moderna così da lasciar credere chi abita al di là delle Alpi che nel proprio Paese, dato che non c’è Berlusconi, va tutto assolutamente bene.

Questione di stile

Quando mi sono trasferita all’estero uno degli aspetti che più mi ha colpita positivamente è stato lo stile di abbigliamento delle donne. Per “stile” non intendo il buon gusto nella scelta e nell’abbinamento di capi e colori, perché noi italiane siamo abituate a osservare regole assolutamente ignote nel nord Europa. Intendo la maggiore libertà con cui le donne scelgono cosa indossare. Avevo 26 anni, e mi era stato insegnato che la fase in cui è accettabile indossare minigonne ultracorte e shorts che lasciano poco spazio all’immaginazione termina intorno ai 30 anni, ma si può prolungare nelle località marittime. Mi è bastato prendermi una birra in un pub di Newcastle per capire di avere ancora molti anni di minigonne estreme davanti a me, sempre che la prospettiva mi interessasse.

La stessa situazione si è ripetuta in Olanda. Appena il termometro ha sfiorato i 23 gradi ho incontrato donne sulla sessantina con indosso pantaloncini corti decisamente molto sopra il ginocchio e top ultra-scollati con reggiseno a vista. Quando la temperatura ha raggiunto i 30 ho visto persino colleghe insegnanti in prendisole. Potete poi facilmente immaginare gli effetti collaterali legati all’abitudine di indossare minigonne e abitini svolazzanti anche quando si va in bici. Anche qui ho abbracciato questa tendenza con grande joie de vivre e atteso con ansia le giornate più tropicali per sfoggiare vestitini e pantaloncini che in Italia sarebbero stati relegati al percorso casa-spiaggia.

Così capite che sono rimasta alquanto sorpresa quando ho scoperto che la maggior parte dei miei studenti olandesi crede le italiane vestano in modo sconcio. In seguito ad approfondite analisi ho capito che a monte di questo luogo comune ci sono i quiz televisivi di RAI1 e Canale5. Per qualche strana ragione – garantisco, io non c’entro – devono aver pensato che seguirli potesse aiutarli a migliorare il loro italiano. Così alcuni di loro ancora faticano a comprendere le indicazioni stradali, ma sanno dire “Ghigliottina!” e “La accendiamo?”. Ho cercato di spiegare che le italiane non vanno solitamente in giro vestite come le vallette TV e non fanno balletti ammiccanti in pubblico ma non c’è stato nulla da fare. Poi ho avuto la pessima idea di invitarli a guardare il Festival di Sanremo e di chiedere la loro opinione, e il giudizio è stato sempre lo stesso: vi vestite con le tette di fuori e vi truccate in modo troppo appariscente.

Per molto tempo ho continuato a chiedermi come facessero a sostenere questa opinione. Il punto è che hanno davanti a loro ogni settimana la sottoscritta, rigorosamente intabarrata da testa a piedi in strati su strati di lana da ottobre ad aprile inoltrato. Pensavo di far venire loro qualche dubbio, e invece niente. E poi non riuscivo a capire come facessero a rimanere convinti della loro idea dato che vanno ogni estate in vacanza in Italia e girano la penisola in lungo e in largo. Poi finalmente ho trovato la soluzione dell’enigma: la risposta va cercata nel confirmation bias. In pratica, consiste nel cercare instancabilmente conferme alle proprie ipotesi ignorando tutte le prove contrarie. In una grande città italiana probabilmente l’attenzione dei miei studenti sarà stata attratta dalle poche ragazze giovanissime in shorts, e avranno ignorato la folla di trentenni e quarantenni intorno a loro poco truccate e molto vestite.

Il confirmation bias è una pratica molto comune da sempre in tutte le culture. Perciò, vi invito a sfruttare questo mio post per riflettere sui luoghi comuni che avete degli stranieri: sono sostenuti da dati oggettivi, o quando avete visitato quel Paese eravate a caccia disperata di conferme ai vostri stereotipi? Vi faccio qualche esempio: i francesi con cui avete parlato in vacanza erano davvero tutti altezzosi, o forse vi è bastato un rapidissimo scambio con un cameriere stanco e stressato circondato da un branco di turisti chiassosi per maturare questa teoria? Dite che la cucina tedesca è terribile ma le vostre uniche esperienze al riguardo sono limitate ad autogrill? Vi è bastato vedere la cianfrusaglia in vendita nei negozi per turisti di Londra per convincervi che gli inglesi adorano Sua Maestà? Se la risposta a queste domande è sì, forse dovete spingere il vostro sguardo un po’ più in là.