I limiti delle mie lingue

Quando in Italia una ragazza dice in giro di voler studiare le lingue straniere il commento più comune che riceve è sempre lo stesso: “Sì, brava, ma scegli una lingua molto richiesta dalle aziende qui in zona, tipo il cinese”. Poco contano le passioni, posto fisso über alles. Chiaramente loro non hanno alcuna colpa a fare questo tipo di ragionamenti, e non capiscono che una lingua è un mondo che attira alcune persone – come la sottoscritta – come la vetrina di una pasticceria. Non sono gli aspetti concreti legati al nostro futuro lavorativo a spingerci a studiare lingue straniere (ehm, e come potrebbero) ma quelli astratti.

Poi però, una volta addentrata nelle questioni teoriche, le mie preferite, ho scoperto la famosa frase di Wittgenstein “I limiti della mia lingua sono i limiti del mio mondo” e ho avuto la conferma che le lingue erano la mia passione perché tollero poco i limiti. Wittgenstein riteneva che non sia possibile concepire un concetto se la nostra lingua non ha una parola adatta a esprimerlo. Come traduttrice non mi è difficile vedere cosa intendeva dire: ogni lingua è un sistema a sé stante e il tentativo imperfetto e difficile di tradurre significati da una lingua all’altra è, appunto, solo un tentativo. Chi abita all’estero ha smesso di parlare solo una lingua nella sua vita quotidiana e mescola amabilmente due o più idiomi insieme anche quando parla con un conterraneo non perché ha dimenticato la sua lingua, ma perché quando scopre concetti che nella sua lingua non ci sono non riesce più a farne a meno.

In questo articolo lo scrittore olandese (ma ormai genovese di adozione) Ilja Pfeijffer spiega una delle lacune della sua lingua. In olandese esiste una sola parola per due concetti per noi italiani molto diversi: le parole “colpa” e “debito” vengono entrambe tradotte come schuld. Questo spiega benissimo la ritrosia della frugale Olanda nel concedere prestiti ad altri Paesi membri dell’Unione: per la mentalità olandese un debito è automaticamente una colpa e quindi qualcosa di negativo. I limiti della lingua impediscono loro di capire che i debiti possono anche essere opportunità.

Visto che credo gli scambi arricchiscano ho fatto una breve lista di parole che l’olandese e l’italiano dovrebbero scambiarsi per arricchirsi a vicenda di significati nuovi.

Le parole che servono all’italiano

Ci sono due categorie di parole e espressioni che ruberei all’olandese.

La prima appartiene a quelle parole che alcuni definiscono “intraducibili” perché non hanno una parola corrispondente in italiano, vanno spiegate. La mia preferita è gezelligheid, che descrive una sensazione ben precisa. Hai invitato i tuoi amici preferiti a una festa, siete seduti su un divano comodo e state mangiando qualcosa di semplice ma di vostro gusto con un bel bicchiere di vino. La conversazione sgorga in modo spontaneo: tutti si sentono perfettamente a proprio agio e rilassati, sorridono e il tempo sembra volare. Ecco, questa è gezelligheid. Negli anni ho sviluppato una vera e propria dipendenza nei confronti di questa parola e mi trovo onestamente in difficoltà quando ne devo fare a meno perché il mio interlocutore non parla olandese.

Poi ci sono le frasi che semplicemente non diciamo. Mi spiego meglio con un esempio: avete presente quando siete alla cassa di un negozio di abbigliamento e state pagando? Ecco, in Italia la commessa mette il vestito nella borsa e ve la porge solo con un sorriso, al massimo dice “Grazie e arrivederci”. In Olanda questo gesto è accompagnato a una frase ben precisa: “Veel plezier ermee!“, cioè vi augurano di godervi il vostro nuovo acquisto. Mi fa sempre sorridere la reazione che ottengo quando qualcuno mi chiede di tradurre questa frase e spiego che non esiste: “Come non esiste?! Ma io la voglio dire!”. Forse gezelligheid e veel plezier ermee mi piacciono così tanto perché descrivono sensazioni piacevoli, e mi aiutano a ricordare che certi momenti vanno celebrati e le parole per queste occasioni non sono mai troppe.

Le parole che servono all’olandese

Le più grandi lacune da me riscontrate nella lingua olandese sono tutte in ambito alimentare. Che enorme sorpresa! Sarcasmo a parte, data l’estrema semplicità della cucina olandese non stupisce la scarsità del relativo vocabolario culinario, ma il problema è che mancano gli strumenti per redimere gli abitanti delle terre piatte e insegnare loro le basi della cucina. Infatti, il verbo koken significa sia “cucinare” che “lessare”. La stessa enorme confusione sussiste anche con bakken che vuole dire sia “cuocere in padella” che “al forno”. In generale, all’olandese manca del tutto l’enorme varietà di termini italiani usati per descrivere le fasi di preparazione del cibo e gli ingredienti, ma questa lacuna è giustificata dall’incredibile “semplicità” della cucina locale. Per esempio, in Italia i tantissimi tagli di carne hanno nomi diversi quasi in ogni regione. Qui no, ma non mancano solo le parole, mancano direttamente i tagli di carne.

Questa enorme frugalità linguistica in ambito alimentare mi mette sempre in difficoltà. Il problema non è che non posso comunicare con il macellaio, quanto che non posso nemmeno pensare di spiegare a chi mi circonda come si cucina perché mancano a me – ma soprattutto agli altri – le parole per farlo. Non basta tradurre in olandese e spiegare, a volte alle sfumature di significato ne corrispondono altrettante di sapore che sono enormi per noi italiani e del tutto inesistenti per gli olandesi.

Cosa ho perso e cosa ho guadagnato

Così, se quando penso alla parola gezelligheid sento di aver guadagnato qualcosa di prezioso, quando parlo di cibo in olandese mi sento le mani legate. Questi esempi ci mostrano in modo molto pratico che per arrivare a parlare davvero bene una lingua è necessario focalizzarsi non solo sulle parole ma capirne bene la relativa cultura, poiché le parole ne sono la naturale conseguenza. Le parole, per dirla breve, sono al servizio della cultura, e se alcuni termini in una lingua non esistono è semplicemente perché quella cultura non li ritiene necessari. Le lingue non sono uno strano agglomerato di parole e di suoni e per impararle bene davvero è necessario comprendere fino in fondo la cultura. E questo processo è dannatamente affascinante.

Paese che vai, lingua che trovi

Quando mi sono trasferita in Olanda e ho spiegato a nuovi e vecchi conoscenti che avrei studiato l’olandese due sono state le reazioni: “Non ti preoccupare, imparerai la nuova lingua in un battibaleno” e “Sì vabbè, ma non lo imparerai mai bene”. Niente vie di mezzo né osservazioni lucide e obiettive. Ora dopo molti anni però posso riflettere sull’intero processo, e ho realizzato che imparare una lingua sui banchi di scuola da piccoli e apprendere la lingua del luogo in cui ti sei trasferita da grandicella sono due esperienze totalmente diverse. Entrambe le modalità hanno pregi e difetti, ma soprattutto inconvenienti che possono facilmente essere risolti, basta esserne consapevoli. Ecco la mia esperienza personale.

Il tempo

“We have all the time in the world” cantava Louis Armstrong. Ecco, quando inizi a studiare lingue in prima media, come ho fatto io, quella è la sensazione che provi. Avrai tempo per praticare ogni conversazione migliaia di volte prima di doverla fare per davvero, tempo per approfondire singoli aspetti e per fare tanti esercizi. Non è vero che da adulti non è più possibile imparare bene le lingue – come pensano in molti – ma è vero che la mancanza di tempo ti crea una notevole pressione psicologica. Sai che dovrai presto sostenere colloqui di lavoro in olandese e temi che il minimo errore ti metta fuori combattimento. Così hai una fretta enorme, che non ti pone nella migliore condizione per imparare.

La groviera

Il processo di apprendimento scolastico segue un percorso ben chiaro e logico, quando invece sei grandicella e hai bisogno di quella lingua ogni giorno quel percorso segue la tua vita. Per esempio, subito dopo aver imparato l’alfabeto ho chiesto alla mia insegnante di insegnarmi il lessico di base che mi sarebbe servito per partecipare a una lezione di yoga. Così non ero ancora in grado di presentarmi, ma capivo “Pak een matje” (=prendete un materassino) e conoscevo i nomi delle parti del corpo.

Il risultato di tutto ciò è molto ovvio: la mia conoscenza dell’olandese aveva più buchi di una forma di groviera, e ho dovuto procedere a ritroso per colmare tutti questi crateri creati dalla troppa fretta di imparare. Uno di questi è la capacità di scrivere, che viene spesso trascurata nei corsi di lingua con troppi studenti forse perché allenarla richiederebbe un grande dispendio di tempo da parte dell’insegnante per correggere i compiti. Il risultato di tutto ciò è che facevo fatica a scrivere una e-mail senza l’ausilio del correttore automatico di Word.

L’opinione altrui

Quando si impara una lingua straniera sui banchi di scuola solitamente le interferenze sono limitate. Per “interferenze” intendo persone diverse dai propri insegnanti che vogliono aiutare lo studente ma che in realtà finiscono per confonderlo alla grande. Così lui sviluppa le sue competenze nella sua bolla fino a quando – con un po’ di shock – si troverà a dover mettere tutto in pratica durante uno scambio o una vacanza studio.

Chi invece impara le lingue sul posto si trova ad aver a che fare subito con persone che solo perché parlano una data lingua credono di poter essere anche in grado di giudicarne la conoscenza negli altri, suggerire metodi e correggere la pronuncia. Sono riuscita fin da subito a tenere a bada i giudizi troppo negativi o troppo lusinghieri e a ignorare i commenti sul metodo, ma mi sono persa nel gorgo degli accenti. Il punto è che in Olanda quasi tutti hanno un accento e molti invece di lasciarmi quello che stavo sviluppando, cioè quello dell’insegnante di quel momento, hanno deciso di impormi il loro. A volte li ho ascoltati e ho modificato la mia pronuncia di certe parole per poi venir nuovamente corretta da altri: “Ma cosa dici?! Non si dice così”.

Gli insegnanti

Ho seguito moltissimi corsi di olandese e avuto tanti insegnanti: alcune fantastiche (tutte donne, che ci posso fare), altri/e meno, perché credevano che farmi leggere libri per bambini pieni di termini non proprio utili nella vita quotidiana (tipo “orco”) fosse utile. Ma il problema principale è che non correggevano i miei errori. Forse non volevano demotivarmi, forse ne facevo troppi e non riuscivano a starci dietro, chissà perché lo facevano. Il problema è che i corsi per adulti solitamente non hanno esami e raramente le persone con cui parliamo ogni giorno ci correggono, così ci ho messo un po’ a rendermi conto della mole di errori che facevo e correre ai ripari è stato più duro di quanto sarebbe stato imparare subito a parlare in modo corretto. Se avete un’insegnante che prende nota dei vostri errori mentre parlate e ve li spiega tenetevela stretta.

Non tradurre

La traduzione è una mia grande passione, ma ho imparato sul campo che non aiuta a imparare bene le lingue semplicemente perché ciascuna è un sistema a sé stante, e tradurre in continuazione rallenta notevolmente il nostro cervello oltre a essere fonte di innumerevoli errori. Vi farò un esempio: a yoga ho notato che ogni volta per chiederci di tenere una certa posizione (sempre scomoda) la nostra insegnante ci diceva “hou vol”. Non mi sono mai chiesta come avrei tradotto questa frase in italiano, l’ho semplicemente collegata a una situazione. Lo stesso ho iniziato a fare con quasi tutte le parole e le frasi di uso più comune. Sono stata aiutata in questo dal fatto che molte delle mie insegnanti di olandese parlavano poco inglese o avevano giustamente poca voglia di tradurre ogni singola parola. Se avevo un dubbio chiedevo: “In quale contesto si usa questa parola?” e loro mi facevano subito un esempio. Per fortuna alcuni libri non hanno le noiosissime liste di parole ma immagini e esempi.

Praticare

Imparare le lingue a scuola è spesso molto noioso semplicemente perché non si vede a volte l’utilità di ciò che studiamo e si pratica troppo poco. Il punto è che provare una conversazione standard con il nostro vicino di banco – che magari è anche la nostra migliore amica – e avere una vera conversazione magari in un contesto che ci agita un po’, tipo dal medico, è diverso. Quando impari la lingua sul posto hai innumerevoli occasioni di praticare subito ciò che hai immediato, il che è una notevole spinta motivazionale. E poi il riscontro ti permette di “correggere il tiro” e magari affinare la tua pronuncia imitando gli autoctoni.

Full immersion

Ammetto che i ragazzi che studiano ora le lingue straniere hanno mille modi per “immergersi” nella lingua grazie a video su youtube, serie TV in lingua originale e musica a volontà su Spotify, ma tutti questi dispositivi hanno il tasto di spegnimento. Ecco, all’estero il tasto di spegnimento non esiste. Ciò vuol dire che anche se hai appena finito di studiare olandese e vorresti solo rilassarti e fare una passeggiata, i tuoi occhi vedranno insegne in olandese, le tue orecchie sentiranno persone parlare in olandese e se vuoi berti una tazza di tè dovrai ordinarla in olandese. La sensazione di essere immerso negli stimoli non è per tutti piacevole all’inizio: alcuni la percepiscono come estremamente stancante e desiderano fortemente poter chiudere il quaderno e lasciare la scuola. Solo che ci abitano nella “scuola”.

Linguistica-mente

Oggi vorrei portarvi in viaggio nella mia mente. Però non sarà davvero un viaggio tra i miei pensieri perché finirebbe malissimo: ci perderemmo, voi mi chiedereste la strada e io finirei con il dover ammettere di essermi persa pure io. La mia intenzione era un “viaggio linguistico” nella mia mente poiché questo è un ambito in cui mi sento molto a mio agio. Non posso dirvi – né spiegarmi – i contorti percorsi dei miei pensieri ma so benissimo perché uso le parole in un certo modo, e adoro disquisire di lingue, lo farei per ore.

Le parole intraducibili

Le intraducibili sono quelle parole che non hanno un corrispettivo in italiano. Dato che so alcuni traduttori inorridiscono dinanzi al concetto di “intraducibile” chiarisco dicendo che si traducono in base al contesto e alla frase in cui si trovano. Il traduttore non traduce parole ma idee, quindi non teme le parole intraducibili.

La mia parola intraducibile preferita è spannend, che si usa per definire qualcosa che provoca tensione e emozioni forti di genere sia positivo che negativo. Un esame universitario è spannend, così come una operazione chirurgica, ma può esserlo anche un evento positivo come la nascita di un figlio. È semplicemente qualcosa che non ci lascia indifferenti e che ci provoca una reazione emotiva.

Se il traduttore sa come comportarsi in questi casi, lo studente casca sempre dal pero. “Come si dice spannend in italiano?”. Gli spiego le sfumature di significato, i possibili contesti, magari gli chiedo pure di darmi una frase con quella parola che la traduciamo insieme… ma lui non mi ascolta già più. Tiene in mano il telefono e mi dice: “Secondo Google Translate si dice così” con lo sguardo diffidente di chi sta pensando “Fa tutta questa tiritera perché questa parola non la sa”. È successo così tante volte che non mi arrabbio più. Tipicamente dentro di me maledico Google Translate, che pure è uno strumento così utile a volte, e mi chiedo come mai molti non riescano proprio a comprendere cosa è una lingua. I peggiori sono quelli che dicono di parlarne molte (tutte perfettamente, mi pare ovvio) ma sono completamente dipendenti dalle liste di parole, che senza il contesto servono a niente, e da Google Translate. Come si può dire di parlare cinque o sei lingue se non si è ancora capito come funziona la propria?

Le parole che potrei tradurre ma è più facile non farlo

A questa categoria appartengono le parole legate a cose di cui ho scoperto l’esistenza solo all’estero. Il mio esempio preferito sono le pioenrozen, ma molte parole di questa categoria in olandese sono fiori perché in Olanda le bancarelle al mercato sono molto più belle e fornite di quelle italiane, e ho scoperto molte varietà che non conoscevo. A mio parere immensamente più belle dei tulipani, le pioenrozen non sono altro che le peonie, solo che prima di venire a vivere qui non le avevo mai viste, quindi per me non esistevano. Potete correggermi finché volete e costringermi a dire “peonie” ma non mi farete mai cambiare questa abitudine: per me quei fiori si chiamano pioenrozen.

Lo stesso era accaduto in Inghilterra con il bollitore dell’acqua (che per me si chiama ancora e solo kettle) e una grande quantità di verdura di cui prima ignoravo l’esistenza, tra cui parsnip, swede, celeriac, kale e butternut squash. Se a questo punto siete curiosi di sapere di cosa sto parlando, non cercate la traduzione del termine ma andate su Google images. Tradurre è un qualcosa di necessario per comunicare ma il modo peggiore per imparare una lingua, cercate di collegare invece un’immagine a una parola nuova.

Le parole imperdibili

In molti anni all’estero il mio modo di parlare – e non solo quello – è ovviamente cambiato molto. Mi accorgo di fare più fatica a usare il congiuntivo ma non perché lo abbia dimenticato, quanto perché mi fido meno del mio istinto. A forza di sentirmi dire che stando all’estero ci si dimentica la propria lingua, ho iniziato a dubitare del mio uso di congiuntivi e preposizioni e a leggere una montagna di libri tecnici per ovviare a questo problema. Poi ascolto gli italiani alla radio, leggo articoli scritti da giornalisti anche famosi sui principali giornali italiani e mi accorgo che a loro qualche dubbio rispetto alle proprie abilità linguistiche non è proprio mai venuto. Ma io viaggio con l’impostore, che ci posso fare, il dubbio è sempre al mio fianco.

Tuttavia anche se ho cambiato il modo in cui mi esprimo ci sono alcune parole – quasi tutte in piemontese – di cui non posso fare a meno perché esprimono alcuni concetti in modo davvero unico e preciso. Non so voi dove mettete il cibo per portarlo in tavola, e non mi interessano tutte quelle parole complesse e imprecise tipo ciotola, insalatiera, zuppiera e recipiente. Sono una peggio dell’altra e hanno anche un pessimo suono. Io lo metto in un grilet, e basta.

Lo stesso procedimento funziona con i modi dire. Alcuni anni fa ero in un negozio di caffettiere in Olanda e ho chiesto se avessero in vendita filtri della Bialetti. Il commesso molto premuroso ha deciso di spiegarmi anche come si usa: mi ha spiegato fin dove riempire la caffettiera di acqua, quanta polvere di caffè mettere e tutto il resto della procedura. Sono riuscita a non scoppiare a ridere mentre pensavo che vedo qualcuno preparare la moka più o meno da quando sono alta abbastanza da riuscire a guardare cosa avviene sul bancone della cucina. In questi casi c’è solo un commento possibile, e ve lo traduco in italiano per cortesia ma sappiate che in piemontese suona molto meglio: non insegnare a un gatto ad arrampicarsi.

Le parole ibride

Qui entriamo in un contesto davvero horror: mettete a letto i bambini prima di avventurarvi oltre. Dunque, dato che un po’ come delle piante abbiamo messo le nostre radici mediterranee in una terra straniera e con noi non del tutto compatibile, abbiamo iniziato a creare terribili mutazioni paragonabili a quelle che in natura sono causate da radiazioni, inquinamento o dalla mano dell’uomo. Tali ibridi, osceni tanto quanto gli acini d’uva senza seme e i fragoloni senza sapore, tipicamente non vengono condivisi con il resto del mondo. Ebbene sì, ce ne vergogniamo un po’, ma per questa volta faremo un’eccezione.

In Olanda quando viaggiamo in treno non compriamo il biglietto, ma carichiamo una tessera plastificata che funziona un po’ come le tessere delle metropolitane di Parigi e Londra. In questo modo non si perde tempo in biglietteria e se si cambia idea sul tragitto non serve rifare il biglietto. Da qui è nato il neologismo “Hai opladato la OV chip?” (cioè ricaricato la tesserina?). Altri esempi sono “Ti sei opknappata?” (messa in tiro, preparata per uscire) e “Hai sentito, hanno oppakkato un tizio” (arrestato). Mentre questi ibridi osceni sono ironici, e quindi il mio codice etico interno li accetta e perdona, riesco per fortuna a tenermi alla larga dai numerosi obbrobri di cui i miei connazionali si macchiano in continuazione semplicemente perché da traduttrice ho sviluppato una specie di semaforo rosso interno. Uno tra i peggiori è “Ho reagito a una e-mail” causato dalla confusione tra il verbo olandese reageren e quello italiano “reagire”, ma è anche piuttosto fastidioso confondere library con “libreria” e annoy con “annoiare”.

La vera creatività italiana però esce allo scoperto quando cambiamo il significato di termini o espressioni con l’ironia. Per esempio, ci piace prendere in giro bonariamente l’approccio calvinista secondo il quale qualsiasi genere alimentare dal momento in cui ci sfama è buono. Così tra amici ci scambiamo foto delle peggio oscenità – pizze con cavolo e worstje, burro di noccioline all’ananas, pancakes olandesi con formaggio e zucchero… – e commentiamo con “Lekker, hoor” (che buono!), che è diventata per noi un’espressione inadatta a qualsiasi discorso serio sul cibo. Infine l’ibrido peggiore, ma anche il più divertente, avviene quando traduciamo letteralmente in italiano modi di dire olandesi. I miei preferiti sono “Ho fatto un vasetto” (ho fatto un pasticcio) e “Tieni nei buchi che domani c’è lo sciopero dei treni” (tieni presente). In fin dei conti ripetiamo la stessa operazione perversa che tutti gli studenti di lingue del mondo compiono in continuazione – tradurre letteralmente dalla propria lingua – solo che siamo consapevoli del nostro scempio e non rischiamo occhiatacce o prese in giro.

La mia lingua sorella

Oggi entreremo in uno dei misteri della vita da emigrata all’estero: l’uso delle lingue in cui divido la mia giornata. Innanzitutto, in casa ho l’enorme fortuna di poter parlare italiano, che ora si è arricchito anche di sfumature in due altre lingue (l’inglese e l’olandese) e per fortuna non ha mai perso quel tocco di dialetto che lo rende davvero espressivo. Non potete capire quanto è bello discutere animatamente mescolando tre lingue e un dialetto, è un qualcosa di unico. Fuori casa l’italiano trova posto solo con i miei studenti, ma è un’altra lingua: con loro cerco di scandire le parole, faccio attenzione a tenere l’accento regionale sotto controllo, evito termini troppo complicati o colloquiali e soprattutto parlo alla moviola. È una lingua che loro apprezzano anche se dicono che parlo ancora troppo veloce, ma che vi farebbe ridere a crepapelle (e a me fa venire male alla mascella dopo un po’).

Poi ci sono le mie altre due lingue, che vengono equamente divise tra: vita privata e vita pubblica. L’olandese è la lingua delle e-mail di lavoro, delle telefonate all’internet provider per lamentarmi quando si rompe il modem, delle chiacchiere con i vicini di casa e, in generale, delle conversazioni con tutti gli olandesi che mi circondano. E poi c’è l’inglese, che è la lingua del piacere, e viene tenuto tutta la settimana nell’armadio insieme al vestito buono per essere sfoggiato con gli amici soprattutto nel fine settimana. È la fetta di sachertorte la domenica pomeriggio, il mojito del sabato sera.

Ciò è dovuto al fatto che, come moltissimi altri spatriati, la maggior parte dei miei amici è costituita da stranieri conosciuti ai corsi di olandese. Non c’è nulla da stupirsi al riguardo: non sempre si trovano colleghi con cui si ha piacere di uscire, e i nativi hanno tipicamente un calendario fittissimo di appuntamenti tra feste di compleanno di familiari e di amici di lunga data in cui sarebbe difficilissimo inserirsi. E poi in generale gli olandesi non cercano amicizie nuove perché ne hanno già in abbondanza. Noi, al contrario, siamo costantemente a caccia di amicizie e ci troviamo bene insieme perché solitamente siamo accomunati da molti fattori, tra cui l’approccio nei confronti delle altre culture e esperienze di vita piuttosto simili.

La settimana scorsa però un’amica olandese mi ha chiesto stupita: “Ma dato che vi siete conosciuti a corsi di olandese, e che comunque la vostra madrelingua non è l’inglese, perché vi ostinate a parlare inglese tra di voi? Perché non parlate olandese?”. Già, perché? Ci ho pensato su e mi sono data alcune risposte.

Innanzitutto, per tutti noi l’inglese è la seconda lingua. Lo abbiamo imparato da piccoli, lo abbiamo affinato all’università e ce lo siamo goduti ascoltando la musica rock e guardando i nostri film preferiti. Raramente le offerte di lavoro per stranieri richiedono la conoscenza dell’olandese, così molti hanno trovato lavoro contando di poterlo evitare del tutto o di impararlo poi con molta calma. Per chi abita in città piuttosto piccole però la calma è venuta presto meno, perché ci siamo accorti di doverci dare una mossa per poter interagire meglio con la realtà intorno a noi.

Molti hanno imparato la lingua solo per passare l’esame per ottenere la nazionalità o essere in grado di comprendere gli annunci alla stazione e le e-mail del proprio capo. Altri si sono spinti più in là, ma poi hanno ceduto e, all’ennesimo: “Wat zeg je?” (=come dici?) di qualcuno che non capiva la loro pronuncia, o quando hanno provato a parlare in olandese ed è stato loro risposto in inglese, hanno tirato i remi in barca e deciso di usarlo solo in casi di vera necessità. Tentavano di fingersi local ma hanno infine accettato il loro status di stranieri, e lo dichiarano con orgoglio ogni volta che aprono bocca.

Così la ragione principale è onestamente la più ovvia. Il comune denominatore dei casi sopra è che l’olandese è stato per molti di noi più costrizione che libera scelta. Molti tra noi sono arrivati in Olanda per caso per ragioni di studio o lavoro e hanno deciso di rimanervi, ma non sono riusciti a innamorarsi mai né nella cultura calvinista né della lingua. Così, anche se la nostra insegnante ci ha messo impegno a farci leggere poesie e ascoltare musica che a lei sembrava romantica, noi alla fine della lezione mentre aprivamo il lucchetto della bici per tornare a casa già ci salutavamo in inglese, perché dopo tre ore a fare i gargarismi per cercare di pronunciare bene la terribile /g/ olandese, la nostra gola aveva bisogno di un po’ di musicalità.

So che è un qualcosa triste da dire, ma in fin dei conti l’olandese è come un ragazzo ricco ma un po’ sfigato con cui decidiamo di stare per convenienza, ma che ci premuriamo di accompagnare a casa alle 8 di sera accampando scuse per poi uscire dopo con l’inglese, che ha pochi soldi ma tanta simpatia. Non ce ne voglia l’olandese, ma l’inglese – specialmente nella varietà expat – è davvero irresistibile: è un fantastico intruglio di parole create da noi sulla base delle nostre lingue, di pronuncia inventata (un po’ americana, un po’ inglese, un po’ chi lo sa) e di grammatica di fantasia. Però ci capiamo alla perfezione, riusciamo a parlare davvero di tutto e a descrivere le nostre emozioni proprio come se fosse la nostra lingua. E infatti, proprio perché comunque non è la nostra lingua, nessuno si sente mai in difetto, nessuno corregge l’altro o sente di dover chiedere scusa perché non si ricorda una parola. È una lingua che scioglie le tensioni dalle spalle, rilassa la mente e sollecita i sorrisi. Non ce ne vogliano i puristi, so che alcuni inorridirebbero, ma l’inglese expat è la lingua più bella del mondo perché semplicemente permette a persone provenienti dai quattro angoli del globo di comunicare efficacemente senza patemi e sensi di colpa. Cos’altro deve fare una lingua?