I limiti delle mie lingue

Quando in Italia una ragazza dice in giro di voler studiare le lingue straniere il commento più comune che riceve è sempre lo stesso: “Sì, brava, ma scegli una lingua molto richiesta dalle aziende qui in zona, tipo il cinese”. Poco contano le passioni, posto fisso über alles. Chiaramente loro non hanno alcuna colpa a fare questo tipo di ragionamenti, e non capiscono che una lingua è un mondo che attira alcune persone – come la sottoscritta – come la vetrina di una pasticceria. Non sono gli aspetti concreti legati al nostro futuro lavorativo a spingerci a studiare lingue straniere (ehm, e come potrebbero) ma quelli astratti.

Poi però, una volta addentrata nelle questioni teoriche, le mie preferite, ho scoperto la famosa frase di Wittgenstein “I limiti della mia lingua sono i limiti del mio mondo” e ho avuto la conferma che le lingue erano la mia passione perché tollero poco i limiti. Wittgenstein riteneva che non sia possibile concepire un concetto se la nostra lingua non ha una parola adatta a esprimerlo. Come traduttrice non mi è difficile vedere cosa intendeva dire: ogni lingua è un sistema a sé stante e il tentativo imperfetto e difficile di tradurre significati da una lingua all’altra è, appunto, solo un tentativo. Chi abita all’estero ha smesso di parlare solo una lingua nella sua vita quotidiana e mescola amabilmente due o più idiomi insieme anche quando parla con un conterraneo non perché ha dimenticato la sua lingua, ma perché quando scopre concetti che nella sua lingua non ci sono non riesce più a farne a meno.

In questo articolo lo scrittore olandese (ma ormai genovese di adozione) Ilja Pfeijffer spiega una delle lacune della sua lingua. In olandese esiste una sola parola per due concetti per noi italiani molto diversi: le parole “colpa” e “debito” vengono entrambe tradotte come schuld. Questo spiega benissimo la ritrosia della frugale Olanda nel concedere prestiti ad altri Paesi membri dell’Unione: per la mentalità olandese un debito è automaticamente una colpa e quindi qualcosa di negativo. I limiti della lingua impediscono loro di capire che i debiti possono anche essere opportunità.

Visto che credo gli scambi arricchiscano ho fatto una breve lista di parole che l’olandese e l’italiano dovrebbero scambiarsi per arricchirsi a vicenda di significati nuovi.

Le parole che servono all’italiano

Ci sono due categorie di parole e espressioni che ruberei all’olandese.

La prima appartiene a quelle parole che alcuni definiscono “intraducibili” perché non hanno una parola corrispondente in italiano, vanno spiegate. La mia preferita è gezelligheid, che descrive una sensazione ben precisa. Hai invitato i tuoi amici preferiti a una festa, siete seduti su un divano comodo e state mangiando qualcosa di semplice ma di vostro gusto con un bel bicchiere di vino. La conversazione sgorga in modo spontaneo: tutti si sentono perfettamente a proprio agio e rilassati, sorridono e il tempo sembra volare. Ecco, questa è gezelligheid. Negli anni ho sviluppato una vera e propria dipendenza nei confronti di questa parola e mi trovo onestamente in difficoltà quando ne devo fare a meno perché il mio interlocutore non parla olandese.

Poi ci sono le frasi che semplicemente non diciamo. Mi spiego meglio con un esempio: avete presente quando siete alla cassa di un negozio di abbigliamento e state pagando? Ecco, in Italia la commessa mette il vestito nella borsa e ve la porge solo con un sorriso, al massimo dice “Grazie e arrivederci”. In Olanda questo gesto è accompagnato a una frase ben precisa: “Veel plezier ermee!“, cioè vi augurano di godervi il vostro nuovo acquisto. Mi fa sempre sorridere la reazione che ottengo quando qualcuno mi chiede di tradurre questa frase e spiego che non esiste: “Come non esiste?! Ma io la voglio dire!”. Forse gezelligheid e veel plezier ermee mi piacciono così tanto perché descrivono sensazioni piacevoli, e mi aiutano a ricordare che certi momenti vanno celebrati e le parole per queste occasioni non sono mai troppe.

Le parole che servono all’olandese

Le più grandi lacune da me riscontrate nella lingua olandese sono tutte in ambito alimentare. Che enorme sorpresa! Sarcasmo a parte, data l’estrema semplicità della cucina olandese non stupisce la scarsità del relativo vocabolario culinario, ma il problema è che mancano gli strumenti per redimere gli abitanti delle terre piatte e insegnare loro le basi della cucina. Infatti, il verbo koken significa sia “cucinare” che “lessare”. La stessa enorme confusione sussiste anche con bakken che vuole dire sia “cuocere in padella” che “al forno”. In generale, all’olandese manca del tutto l’enorme varietà di termini italiani usati per descrivere le fasi di preparazione del cibo e gli ingredienti, ma questa lacuna è giustificata dall’incredibile “semplicità” della cucina locale. Per esempio, in Italia i tantissimi tagli di carne hanno nomi diversi quasi in ogni regione. Qui no, ma non mancano solo le parole, mancano direttamente i tagli di carne.

Questa enorme frugalità linguistica in ambito alimentare mi mette sempre in difficoltà. Il problema non è che non posso comunicare con il macellaio, quanto che non posso nemmeno pensare di spiegare a chi mi circonda come si cucina perché mancano a me – ma soprattutto agli altri – le parole per farlo. Non basta tradurre in olandese e spiegare, a volte alle sfumature di significato ne corrispondono altrettante di sapore che sono enormi per noi italiani e del tutto inesistenti per gli olandesi.

Cosa ho perso e cosa ho guadagnato

Così, se quando penso alla parola gezelligheid sento di aver guadagnato qualcosa di prezioso, quando parlo di cibo in olandese mi sento le mani legate. Questi esempi ci mostrano in modo molto pratico che per arrivare a parlare davvero bene una lingua è necessario focalizzarsi non solo sulle parole ma capirne bene la relativa cultura, poiché le parole ne sono la naturale conseguenza. Le parole, per dirla breve, sono al servizio della cultura, e se alcuni termini in una lingua non esistono è semplicemente perché quella cultura non li ritiene necessari. Le lingue non sono uno strano agglomerato di parole e di suoni e per impararle bene davvero è necessario comprendere fino in fondo la cultura. E questo processo è dannatamente affascinante.

Paese che vai, lingua che trovi

Quando mi sono trasferita in Olanda e ho spiegato a nuovi e vecchi conoscenti che avrei studiato l’olandese due sono state le reazioni: “Non ti preoccupare, imparerai la nuova lingua in un battibaleno” e “Sì vabbè, ma non lo imparerai mai bene”. Niente vie di mezzo né osservazioni lucide e obiettive. Ora dopo molti anni però posso riflettere sull’intero processo, e ho realizzato che imparare una lingua sui banchi di scuola da piccoli e apprendere la lingua del luogo in cui ti sei trasferita da grandicella sono due esperienze totalmente diverse. Entrambe le modalità hanno pregi e difetti, ma soprattutto inconvenienti che possono facilmente essere risolti, basta esserne consapevoli. Ecco la mia esperienza personale.

Il tempo

“We have all the time in the world” cantava Louis Armstrong. Ecco, quando inizi a studiare lingue in prima media, come ho fatto io, quella è la sensazione che provi. Avrai tempo per praticare ogni conversazione migliaia di volte prima di doverla fare per davvero, tempo per approfondire singoli aspetti e per fare tanti esercizi. Non è vero che da adulti non è più possibile imparare bene le lingue – come pensano in molti – ma è vero che la mancanza di tempo ti crea una notevole pressione psicologica. Sai che dovrai presto sostenere colloqui di lavoro in olandese e temi che il minimo errore ti metta fuori combattimento. Così hai una fretta enorme, che non ti pone nella migliore condizione per imparare.

La groviera

Il processo di apprendimento scolastico segue un percorso ben chiaro e logico, quando invece sei grandicella e hai bisogno di quella lingua ogni giorno quel percorso segue la tua vita. Per esempio, subito dopo aver imparato l’alfabeto ho chiesto alla mia insegnante di insegnarmi il lessico di base che mi sarebbe servito per partecipare a una lezione di yoga. Così non ero ancora in grado di presentarmi, ma capivo “Pak een matje” (=prendete un materassino) e conoscevo i nomi delle parti del corpo.

Il risultato di tutto ciò è molto ovvio: la mia conoscenza dell’olandese aveva più buchi di una forma di groviera, e ho dovuto procedere a ritroso per colmare tutti questi crateri creati dalla troppa fretta di imparare. Uno di questi è la capacità di scrivere, che viene spesso trascurata nei corsi di lingua con troppi studenti forse perché allenarla richiederebbe un grande dispendio di tempo da parte dell’insegnante per correggere i compiti. Il risultato di tutto ciò è che facevo fatica a scrivere una e-mail senza l’ausilio del correttore automatico di Word.

L’opinione altrui

Quando si impara una lingua straniera sui banchi di scuola solitamente le interferenze sono limitate. Per “interferenze” intendo persone diverse dai propri insegnanti che vogliono aiutare lo studente ma che in realtà finiscono per confonderlo alla grande. Così lui sviluppa le sue competenze nella sua bolla fino a quando – con un po’ di shock – si troverà a dover mettere tutto in pratica durante uno scambio o una vacanza studio.

Chi invece impara le lingue sul posto si trova ad aver a che fare subito con persone che solo perché parlano una data lingua credono di poter essere anche in grado di giudicarne la conoscenza negli altri, suggerire metodi e correggere la pronuncia. Sono riuscita fin da subito a tenere a bada i giudizi troppo negativi o troppo lusinghieri e a ignorare i commenti sul metodo, ma mi sono persa nel gorgo degli accenti. Il punto è che in Olanda quasi tutti hanno un accento e molti invece di lasciarmi quello che stavo sviluppando, cioè quello dell’insegnante di quel momento, hanno deciso di impormi il loro. A volte li ho ascoltati e ho modificato la mia pronuncia di certe parole per poi venir nuovamente corretta da altri: “Ma cosa dici?! Non si dice così”.

Gli insegnanti

Ho seguito moltissimi corsi di olandese e avuto tanti insegnanti: alcune fantastiche (tutte donne, che ci posso fare), altri/e meno, perché credevano che farmi leggere libri per bambini pieni di termini non proprio utili nella vita quotidiana (tipo “orco”) fosse utile. Ma il problema principale è che non correggevano i miei errori. Forse non volevano demotivarmi, forse ne facevo troppi e non riuscivano a starci dietro, chissà perché lo facevano. Il problema è che i corsi per adulti solitamente non hanno esami e raramente le persone con cui parliamo ogni giorno ci correggono, così ci ho messo un po’ a rendermi conto della mole di errori che facevo e correre ai ripari è stato più duro di quanto sarebbe stato imparare subito a parlare in modo corretto. Se avete un’insegnante che prende nota dei vostri errori mentre parlate e ve li spiega tenetevela stretta.

Non tradurre

La traduzione è una mia grande passione, ma ho imparato sul campo che non aiuta a imparare bene le lingue semplicemente perché ciascuna è un sistema a sé stante, e tradurre in continuazione rallenta notevolmente il nostro cervello oltre a essere fonte di innumerevoli errori. Vi farò un esempio: a yoga ho notato che ogni volta per chiederci di tenere una certa posizione (sempre scomoda) la nostra insegnante ci diceva “hou vol”. Non mi sono mai chiesta come avrei tradotto questa frase in italiano, l’ho semplicemente collegata a una situazione. Lo stesso ho iniziato a fare con quasi tutte le parole e le frasi di uso più comune. Sono stata aiutata in questo dal fatto che molte delle mie insegnanti di olandese parlavano poco inglese o avevano giustamente poca voglia di tradurre ogni singola parola. Se avevo un dubbio chiedevo: “In quale contesto si usa questa parola?” e loro mi facevano subito un esempio. Per fortuna alcuni libri non hanno le noiosissime liste di parole ma immagini e esempi.

Praticare

Imparare le lingue a scuola è spesso molto noioso semplicemente perché non si vede a volte l’utilità di ciò che studiamo e si pratica troppo poco. Il punto è che provare una conversazione standard con il nostro vicino di banco – che magari è anche la nostra migliore amica – e avere una vera conversazione magari in un contesto che ci agita un po’, tipo dal medico, è diverso. Quando impari la lingua sul posto hai innumerevoli occasioni di praticare subito ciò che hai immediato, il che è una notevole spinta motivazionale. E poi il riscontro ti permette di “correggere il tiro” e magari affinare la tua pronuncia imitando gli autoctoni.

Full immersion

Ammetto che i ragazzi che studiano ora le lingue straniere hanno mille modi per “immergersi” nella lingua grazie a video su youtube, serie TV in lingua originale e musica a volontà su Spotify, ma tutti questi dispositivi hanno il tasto di spegnimento. Ecco, all’estero il tasto di spegnimento non esiste. Ciò vuol dire che anche se hai appena finito di studiare olandese e vorresti solo rilassarti e fare una passeggiata, i tuoi occhi vedranno insegne in olandese, le tue orecchie sentiranno persone parlare in olandese e se vuoi berti una tazza di tè dovrai ordinarla in olandese. La sensazione di essere immerso negli stimoli non è per tutti piacevole all’inizio: alcuni la percepiscono come estremamente stancante e desiderano fortemente poter chiudere il quaderno e lasciare la scuola. Solo che ci abitano nella “scuola”.

La mia lingua sorella

Oggi entreremo in uno dei misteri della vita da emigrata all’estero: l’uso delle lingue in cui divido la mia giornata. Innanzitutto, in casa ho l’enorme fortuna di poter parlare italiano, che ora si è arricchito anche di sfumature in due altre lingue (l’inglese e l’olandese) e per fortuna non ha mai perso quel tocco di dialetto che lo rende davvero espressivo. Non potete capire quanto è bello discutere animatamente mescolando tre lingue e un dialetto, è un qualcosa di unico. Fuori casa l’italiano trova posto solo con i miei studenti, ma è un’altra lingua: con loro cerco di scandire le parole, faccio attenzione a tenere l’accento regionale sotto controllo, evito termini troppo complicati o colloquiali e soprattutto parlo alla moviola. È una lingua che loro apprezzano anche se dicono che parlo ancora troppo veloce, ma che vi farebbe ridere a crepapelle (e a me fa venire male alla mascella dopo un po’).

Poi ci sono le mie altre due lingue, che vengono equamente divise tra: vita privata e vita pubblica. L’olandese è la lingua delle e-mail di lavoro, delle telefonate all’internet provider per lamentarmi quando si rompe il modem, delle chiacchiere con i vicini di casa e, in generale, delle conversazioni con tutti gli olandesi che mi circondano. E poi c’è l’inglese, che è la lingua del piacere, e viene tenuto tutta la settimana nell’armadio insieme al vestito buono per essere sfoggiato con gli amici soprattutto nel fine settimana. È la fetta di sachertorte la domenica pomeriggio, il mojito del sabato sera.

Ciò è dovuto al fatto che, come moltissimi altri spatriati, la maggior parte dei miei amici è costituita da stranieri conosciuti ai corsi di olandese. Non c’è nulla da stupirsi al riguardo: non sempre si trovano colleghi con cui si ha piacere di uscire, e i nativi hanno tipicamente un calendario fittissimo di appuntamenti tra feste di compleanno di familiari e di amici di lunga data in cui sarebbe difficilissimo inserirsi. E poi in generale gli olandesi non cercano amicizie nuove perché ne hanno già in abbondanza. Noi, al contrario, siamo costantemente a caccia di amicizie e ci troviamo bene insieme perché solitamente siamo accomunati da molti fattori, tra cui l’approccio nei confronti delle altre culture e esperienze di vita piuttosto simili.

La settimana scorsa però un’amica olandese mi ha chiesto stupita: “Ma dato che vi siete conosciuti a corsi di olandese, e che comunque la vostra madrelingua non è l’inglese, perché vi ostinate a parlare inglese tra di voi? Perché non parlate olandese?”. Già, perché? Ci ho pensato su e mi sono data alcune risposte.

Innanzitutto, per tutti noi l’inglese è la seconda lingua. Lo abbiamo imparato da piccoli, lo abbiamo affinato all’università e ce lo siamo goduti ascoltando la musica rock e guardando i nostri film preferiti. Raramente le offerte di lavoro per stranieri richiedono la conoscenza dell’olandese, così molti hanno trovato lavoro contando di poterlo evitare del tutto o di impararlo poi con molta calma. Per chi abita in città piuttosto piccole però la calma è venuta presto meno, perché ci siamo accorti di doverci dare una mossa per poter interagire meglio con la realtà intorno a noi.

Molti hanno imparato la lingua solo per passare l’esame per ottenere la nazionalità o essere in grado di comprendere gli annunci alla stazione e le e-mail del proprio capo. Altri si sono spinti più in là, ma poi hanno ceduto e, all’ennesimo: “Wat zeg je?” (=come dici?) di qualcuno che non capiva la loro pronuncia, o quando hanno provato a parlare in olandese ed è stato loro risposto in inglese, hanno tirato i remi in barca e deciso di usarlo solo in casi di vera necessità. Tentavano di fingersi local ma hanno infine accettato il loro status di stranieri, e lo dichiarano con orgoglio ogni volta che aprono bocca.

Così la ragione principale è onestamente la più ovvia. Il comune denominatore dei casi sopra è che l’olandese è stato per molti di noi più costrizione che libera scelta. Molti tra noi sono arrivati in Olanda per caso per ragioni di studio o lavoro e hanno deciso di rimanervi, ma non sono riusciti a innamorarsi mai né nella cultura calvinista né della lingua. Così, anche se la nostra insegnante ci ha messo impegno a farci leggere poesie e ascoltare musica che a lei sembrava romantica, noi alla fine della lezione mentre aprivamo il lucchetto della bici per tornare a casa già ci salutavamo in inglese, perché dopo tre ore a fare i gargarismi per cercare di pronunciare bene la terribile /g/ olandese, la nostra gola aveva bisogno di un po’ di musicalità.

So che è un qualcosa triste da dire, ma in fin dei conti l’olandese è come un ragazzo ricco ma un po’ sfigato con cui decidiamo di stare per convenienza, ma che ci premuriamo di accompagnare a casa alle 8 di sera accampando scuse per poi uscire dopo con l’inglese, che ha pochi soldi ma tanta simpatia. Non ce ne voglia l’olandese, ma l’inglese – specialmente nella varietà expat – è davvero irresistibile: è un fantastico intruglio di parole create da noi sulla base delle nostre lingue, di pronuncia inventata (un po’ americana, un po’ inglese, un po’ chi lo sa) e di grammatica di fantasia. Però ci capiamo alla perfezione, riusciamo a parlare davvero di tutto e a descrivere le nostre emozioni proprio come se fosse la nostra lingua. E infatti, proprio perché comunque non è la nostra lingua, nessuno si sente mai in difetto, nessuno corregge l’altro o sente di dover chiedere scusa perché non si ricorda una parola. È una lingua che scioglie le tensioni dalle spalle, rilassa la mente e sollecita i sorrisi. Non ce ne vogliano i puristi, so che alcuni inorridirebbero, ma l’inglese expat è la lingua più bella del mondo perché semplicemente permette a persone provenienti dai quattro angoli del globo di comunicare efficacemente senza patemi e sensi di colpa. Cos’altro deve fare una lingua?

Sguardo in alto tipo scalatori

La conoscenza della lingua locale – e delle lingue in generale – ha un ruolo importantissimo nella vita dell’emigrato, e ciò è così ovvio che stuzzica la curiosità persino degli amici rimasti in Italia e lontani anni luce dalle vicissitudini di noi italiani all’estero. Così quando torno a casa a Natale e spiego che abito in Olanda una delle prime domande che mi viene fatta è se parlo la lingua locale, e poi quale sia questa lingua. Poi ci sono quelli che mi chiedono quanto ci ho messo a diventare fluente in olandese e che credono che imparare una lingua sia un qualcosa di facile e rapido. Innanzitutto, chi abita all’estero ha una concezione del “parlare una lingua” molto diversa da chi ha sempre abitato in Italia e crede che saper dare indicazioni stradali in inglese voglia dire conoscere la lingua. In secondo luogo, imparare una lingua dopo essersi trasferiti nel luogo in cui viene parlata è molto più complesso di quanto possa sembrare dall’Italia perché anche se abbondano le occasioni per praticarla, ci sembra mancare il tempo necessario per assimilare le nozioni e lasciare che si intreccino tra di loro come un merletto, a formare frasi sempre più complesse ed esteticamente belle. Così nella prima fase ci sentiamo spesso come qualcuno che è stato mandato nel mare in burrasca senza aver mai imparato a leggere la bussola. Il passo successivo, il perfezionamento, invece mi ha spesso fatta sentire come Sisifo, impegnata prima a spingere il masso sulla cima della montagna e poi almeno a cercare di evitare di venirne travolta a ogni rotolamento. Perché non è la fatica a farmi paura, è l’impatto contro i miei fallimenti.

Allo straniero che arriva in Olanda si apre una scelta importante: imparare l’olandese oppure continuare a parlare inglese con tutti. A prima vista pare una decisione facile e unicamente basata su tempo libero, predisposizione personale e voglia, ma non è così. Infatti, anche se è vero che nella maggior parte dei casi è possibile comunicare con istituzioni, uffici e servizi di ogni tipo in inglese, è anche vero che molto spesso chi non parla olandese riceve risposte estremamente sintetiche alle sue domande – del tipo “No, non è possibile” – e ciò lo costringe a una sfilza infinita di email e di telefonate. In sostanza, se decide di parlare solo inglese lo straniero sarà agevolmente escluso da una grande quantità di informazioni a lui non accessibili e dovrà dipendere costantemente da altri per svolgere molte pratiche. Tutto ciò però ha un risvolto molto positivo che quando sono arrivata ignoravo totalmente: la protezione dalle fonti di incazzature. In sostanza, ponendosi nella situazione di chi non si vuole integrare lo straniero non sarà in grado di capire le battutine dei suoi vicini di casa e colleghi e le descrizioni largamente stereotipate del suo Paese elargite in abbondanza dai media. E poi, non essendo in grado di seguire i dibattiti e le dichiarazioni dei politici olandesi, resterà convinto di essere in buone mani.

Se invece uno straniero decide di imparare la lingua, passerà attraverso più stadi. Il primo è quello della grande salita perché, mentre in Italia dopo i canonici tredici anni di istruzione obbligatoria la maggior parte degli studenti è ancora ben lontana dal B1 in inglese (e non avete idea di quante volte l’ignoranza linguistica di noi italiani mi venga fatta pesare qui in Olanda), chi impara la lingua direttamente sul posto procede spedito come uno sherpa e ha una enorme fame di conoscenza. Così scarica app per imparare frasette e memorizzare il genere dei nomi, inizia subito a guardare la TV in olandese, leggere giornali, cercare timide conversazioni con i vicini e con la cassiera del supermercato. È bella questa fase, perché è piena di entusiasmo e positività: ringraziamo e siamo riconoscenti ogni volta che capiscono cosa diciamo, sorridiamo e chiediamo scusa quando non capiscono e non ci disperiamo ancora quando siamo noi a non capire un tubo. I progressi, che sono molti e evidenti, ci riempiono di ottimismo e ci autoconvinciamo presto che impareremo perfettamente la lingua e tutto andrà bene. Così lo straniero raggiungerà presto un livello discreto che permette interazioni base ma che nasconde ancora insidie. Ne ho parlato con un ragazzo messicano che ho conosciuto a un taalcafè, un evento in cui è possibile praticare le lingue in un contesto informale. “Riesco a comunicare bene in olandese, ho passato l’esame del livello B2 e preso la nazionalità” mi ha detto “però non riesco a esprimere emozioni in olandese”. E che ci faremo mai con le emozioni, direte voi, mica passiamo la vita a corteggiare il prossimo? Purtroppo o per fortuna la nostra vita non si basa solo sul soddisfacimento dei bisogni primari di Maslow, oltre allo stomaco talvolta dobbiamo nutrire anche la nostra anima, e le emozioni sono l’indispensabile punteggiatura delle nostre comunicazioni quotidiane. Me ne sono accorta sei anni fa quando il tecnico della linea telefonica mi ha detto che sarei dovuta restare senza Internet per una settimana. “Non riesco ad arrabbiarmi in olandese” ho pensato “devo cambiare lingua”, e gli ho mostrato tutto il mio disappunto in inglese, la mia seconda lingua. È difficile arrabbiarsi e gioire, oppure mostrare meraviglia e stupore in una lingua che si conosce da poco tempo, o che abbiamo imparato per pura necessità. Per gli altri tipi di comunicazione, invece, solo la mia lingua madre è e sarà mai adatta. Non saprò mai dire “ti amo”, sognare, reagire a uno spavento, parlare ai gatti e pregare in lingue diverse dalla mia, perché la mia anima non è bilingue.

Ma il buon straniero integrato non si ferma al livello B2. Giammai! Lentamente passerà gli esami, inizierà a ricevere complimenti e rassicurazioni da parte dei suoi insegnanti e a capire perfettamente la TV e le conversazioni tra i nativi. Ma i problemi non finiranno qui, perché gli resterà un accento, e gli capiterà spesso di rivolgersi a un nativo in olandese, e di ricevere la risposta in inglese. A prima vista può sembrare gentilezza, ma la vera ragione dietro questo comportamento è spesso piuttosto diversa. Non conosco stranieri contenti di sentirsi rispondere in inglese, e se alcuni non si arrabbiano perché in fin dei conti sono qui da pochi anni e sanno di avere ancora un forte accento, chi è qui da più tempo tipicamente si offende un po’: “Non credevo il mio olandese fosse così scarso!” è il commento che ho sentito più spesso. “Non preoccuparti, lo fanno per gentilezza e per vantarsi del proprio inglese” dico solitamente loro, anche se in realtà credo sia un modo per tenere a distanza chi sta provando a integrarsi e per fargli capire che non importa quanto ci stia provando, non ci sta riuscendo e si sente. Quindi meglio che lasci perdere e si arrenda a restare uno straniero.

La seconda categoria di persone che più temiamo è chi finge di non capire. Starete pensando: “No, guarda, non capiscono veramente!” ma vi garantisco che le conversazioni che più ci fanno arrabbiare sono le più semplici, perché gli studenti avanzati si allenano a lezione disquisendo di raffinate questioni politiche e filosofiche, ma nella vita di tutti i giorni sono abituati a evitare frasi subordinate per il terrore di non essere capiti. Però, insomma, la vostra insegnante dice che avete una buona pronuncia e padroneggiate bene la grammatica, e voi iniziate a sentirvi piuttosto sicuri delle vostre capacità e pronti a tuffarvi nelle conversazioni. Quindi andate a fare la spesa al mercato e notate che il fruttivendolo proprio non capisce che avete chiesto druiven (uva) – tra l’altro l’avete pure indicata col ditino – e non kruiden (erbe aromatiche). Vi casca il mondo addosso e state per cercare il numero di telefono di un logopedista, quando invece parlate con altri expat di lungo corso che vi spiegano che è normale. Ma si tratta davvero di un problema di pronuncia? Forse in parte sì, perché credo che chi non ha alcun contatto nella vita quotidiana con stranieri, provi uno shock incredibile quando sente un accento insolito. Tuttavia, a mio parere molti fingono invece di non capire per mantenere le distanze, per rimarcare che non siete veri olandesi anche se parlate la loro lingua, e per questa ragione questo tipo di problemi si verifica anche dopo molti anni di permanenza nelle terre piatte. Quando ho sentito una mia insegnante di olandese criticare con toni sprezzanti Ahmed Aboutaleb, il sindaco di Rotterdam, e dire che: “È nato in Marocco, ha fatto quello che poteva, ma il suo olandese non sarà mai buono” ho capito che non è davvero l’accento la questione. È più la difficoltà che si ha a lasciare uno spazio sul proprio piedistallo a qualcuno che è nato altrove e ha una storia diversa dalla nostra. Tenersi uno scalino tutto per sé è molto più comodo e vantaggioso.

Mi sono innamorata perdutamente delle lingue a dieci anni perché mi sembravano un modo per viaggiare dalla mia cameretta. Non erano solo le parole a interessarmi, mi incuriosiva l’altro e volevo entrare in mondi molto lontani da me per scoprire il sapore della differenza. Ora, molti anni dopo, finalmente so perché Calibano maledice Prospero per avergli insegnato la sua lingua. Non avevo capito che le lingue non sono sempre ponti, ma talvolta diventano muri e l’ennesimo strumento di cui si servono gli esseri umani per esercitare il proprio potere nei confronti del prossimo. Dal momento in cui conosco bene il punto di vista dello straniero, mi vengono i brividi ogni volta che vedo (o leggo) italiani prendersi gioco di chi ha imparato a fatica la nostra lingua. Forse basterebbe ricordare a chi lo fa che i bersagli delle loro critiche parlano più di una lingua, loro probabilmente no.