Senza peli sulla lingua

Nella mia esperienza da prima studentessa e poi insegnante di italiano e inglese ho avuto molto a che fare con metodi per l’apprendimento delle lingue. Quando poi sono andata a vivere all’estero ho avuto modo di paragonare la lingua e i dialoghi proposti dai libri con la “vera” lingua parlata all’estero, e ho capito perché il mio lettore di lingua inglese all’università ci diceva: “Voi sapete disquisire di letteratura ma non sareste mai in grado di seguire una conversazione tra i miei amici al pub”. Non esistevano ancora Netflix e Youtube e avevamo tutti una enorme lacuna: il linguaggio colloquiale.

Il primo problema di questo tipo di comunicazione è il suo retaggio. Infatti, molti lo associano con la lingua di strada o il modo di parlare di certi gruppi di persone dalla vita poco cristallina. Nella realtà è usata persino dagli altolocati in situazioni familiari ed è semplicemente un linguaggio a volte impastato di parole regionali, parole accorciate per comodità e modi di dire intrisi di cultura locale. Come quasi tutti gli studenti ho avuto modo di avvicinarmi a questo fantastico mondo solo all’estero e poi, da insegnante, l’ho cercato invano nei vari libri di italiano per stranieri in commercio. La maggior parte di questi corsi propone un linguaggio rigido e stantio, e se sotto un certo punto di vista capisco chi scrive i libri – la lingua è così complessa, come è possibile rendere anche solo un briciolo della sua varietà in un libro – dall’altra non capisco come mai il linguaggio colloquiale non entri nemmeno nei libri per i livelli più avanzati. Il risultato di questo sistema è evidente: dopo molti anni gli studenti ancora non riescono a capire alcun film senza i sottotitoli, hanno difficoltà sui social e parlano una lingua molto lontana dalla realtà.

Ma il problema non è limitato al linguaggio colloquiale. Un’altra lacuna sono gli insulti e le parolacce, che non vengono quasi mai insegnati agli studenti. Mi spiego meglio perché ora starete pensando che sono una personcina ben poco raffinata e devo mettere le mani avanti. La vita di ogni giorno è costellata di una enorme varietà di tipi diversi di interazioni in cui sono spesso coinvolte le emozioni. Per quanto educati possiamo essere, quando un tizio in bicicletta ci investe sulle strisce pedonali la nostra reazione – a meno di essere Ned Flanders – è raramente “acciderbolina”. Eppure i libri hanno raramente una sezione dedicata all’argomento. A volte penso che questi metodi intendano creare la figura mitologica del “buon straniero”, che sa parlare con il medico e leggere il giornale, ma sorride e resta in silenzio quando insultato perché non ha capito o perché non sa rispondere a tono. Ora non dico che lo straniero debba essere incattivito e predisposto all’insulto come Calibano – in fin dei conti a differenza del personaggio di Shakespeare noi ci siamo auto colonizzati – però deve essere in grado di esprimere tutte le sue emozioni, non solo quelle di gioia e gratitudine.

Ci sono varie ragioni per cui ritengo gli insulti debbano entrare nei programmi dei corsi di lingua. Innanzitutto, indipendentemente dalle nostre abitudini personali, queste parole fanno parte di ogni lingua, ed è assurdo imparare solo ciò “quello che serve” secondo l’opinione insindacabile dell’insegnante o di chi ha preparato un corso. In secondo luogo, anche se noi siamo tanto carini e certe cose non le diciamo, se non siamo nemmeno in grado di capirle non potremo capire che una persona ci sta insultando e difenderci. E il punto non è solo capire che una parola è un insulto, ma dovremmo anche sapere cosa significa e se è grave o meno in modo da poter reagire nel modo più opportuno.

Ovviamente mentre una volta le nostre uniche fonti di informazioni linguistiche erano gli insegnanti e i libri, ora nuotiamo in un mare di parole, ma il ruolo dell’insegnante (o del nativo, anche se non insegnante) non è meno importante. Perché proprio perché le informazioni sono tante, persino troppe, è difficile districarsi tra sfumature di significato, registri e accenti regionali. Per esempio, ho imparato molti insulti in inglese da John Bishop, uno stand-up comedian molto noto in Inghilterra, solo che lui è di Liverpool e ribadisce la sua provenienza quasi all’inizio di ogni show. Capite bene che ascoltare un’italiana che passa da un accento abbastanza standard imparato sui libri della Oxford University Press a espressioni lower-class in accento estremo farebbe piuttosto ridere. E poi tradurre letteralmente gli insulti non funziona perché cambiano le circostanze che rendono l’uso di certe espressioni accettabili: ho notato che talvolta alcune parole o modi di dire ampiamente usati in Italia – ehm, siamo personcine perbene ma non abbiamo peli sulla lingua – sono meno accettabili in altri Paesi. È ovvio che il linguaggio colloquiale si impara sul posto, ma sarebbe bello non dover passare attraverso certe figuracce che sono toccate alla sottoscritta. È per questa ragione che servirebbe in ogni corso di lingua una parte dedicata a insulti e linguaggio colloquiale così da poter guidare almeno un po’ lo studente alla scoperta di questo mondo meraviglioso e aprirgli davvero tutte le porte della nuova lingua.

Linguistica-mente

Oggi vorrei portarvi in viaggio nella mia mente. Però non sarà davvero un viaggio tra i miei pensieri perché finirebbe malissimo: ci perderemmo, voi mi chiedereste la strada e io finirei con il dover ammettere di essermi persa pure io. La mia intenzione era un “viaggio linguistico” nella mia mente poiché questo è un ambito in cui mi sento molto a mio agio. Non posso dirvi – né spiegarmi – i contorti percorsi dei miei pensieri ma so benissimo perché uso le parole in un certo modo, e adoro disquisire di lingue, lo farei per ore.

Le parole intraducibili

Le intraducibili sono quelle parole che non hanno un corrispettivo in italiano. Dato che so alcuni traduttori inorridiscono dinanzi al concetto di “intraducibile” chiarisco dicendo che si traducono in base al contesto e alla frase in cui si trovano. Il traduttore non traduce parole ma idee, quindi non teme le parole intraducibili.

La mia parola intraducibile preferita è spannend, che si usa per definire qualcosa che provoca tensione e emozioni forti di genere sia positivo che negativo. Un esame universitario è spannend, così come una operazione chirurgica, ma può esserlo anche un evento positivo come la nascita di un figlio. È semplicemente qualcosa che non ci lascia indifferenti e che ci provoca una reazione emotiva.

Se il traduttore sa come comportarsi in questi casi, lo studente casca sempre dal pero. “Come si dice spannend in italiano?”. Gli spiego le sfumature di significato, i possibili contesti, magari gli chiedo pure di darmi una frase con quella parola che la traduciamo insieme… ma lui non mi ascolta già più. Tiene in mano il telefono e mi dice: “Secondo Google Translate si dice così” con lo sguardo diffidente di chi sta pensando “Fa tutta questa tiritera perché questa parola non la sa”. È successo così tante volte che non mi arrabbio più. Tipicamente dentro di me maledico Google Translate, che pure è uno strumento così utile a volte, e mi chiedo come mai molti non riescano proprio a comprendere cosa è una lingua. I peggiori sono quelli che dicono di parlarne molte (tutte perfettamente, mi pare ovvio) ma sono completamente dipendenti dalle liste di parole, che senza il contesto servono a niente, e da Google Translate. Come si può dire di parlare cinque o sei lingue se non si è ancora capito come funziona la propria?

Le parole che potrei tradurre ma è più facile non farlo

A questa categoria appartengono le parole legate a cose di cui ho scoperto l’esistenza solo all’estero. Il mio esempio preferito sono le pioenrozen, ma molte parole di questa categoria in olandese sono fiori perché in Olanda le bancarelle al mercato sono molto più belle e fornite di quelle italiane, e ho scoperto molte varietà che non conoscevo. A mio parere immensamente più belle dei tulipani, le pioenrozen non sono altro che le peonie, solo che prima di venire a vivere qui non le avevo mai viste, quindi per me non esistevano. Potete correggermi finché volete e costringermi a dire “peonie” ma non mi farete mai cambiare questa abitudine: per me quei fiori si chiamano pioenrozen.

Lo stesso era accaduto in Inghilterra con il bollitore dell’acqua (che per me si chiama ancora e solo kettle) e una grande quantità di verdura di cui prima ignoravo l’esistenza, tra cui parsnip, swede, celeriac, kale e butternut squash. Se a questo punto siete curiosi di sapere di cosa sto parlando, non cercate la traduzione del termine ma andate su Google images. Tradurre è un qualcosa di necessario per comunicare ma il modo peggiore per imparare una lingua, cercate di collegare invece un’immagine a una parola nuova.

Le parole imperdibili

In molti anni all’estero il mio modo di parlare – e non solo quello – è ovviamente cambiato molto. Mi accorgo di fare più fatica a usare il congiuntivo ma non perché lo abbia dimenticato, quanto perché mi fido meno del mio istinto. A forza di sentirmi dire che stando all’estero ci si dimentica la propria lingua, ho iniziato a dubitare del mio uso di congiuntivi e preposizioni e a leggere una montagna di libri tecnici per ovviare a questo problema. Poi ascolto gli italiani alla radio, leggo articoli scritti da giornalisti anche famosi sui principali giornali italiani e mi accorgo che a loro qualche dubbio rispetto alle proprie abilità linguistiche non è proprio mai venuto. Ma io viaggio con l’impostore, che ci posso fare, il dubbio è sempre al mio fianco.

Tuttavia anche se ho cambiato il modo in cui mi esprimo ci sono alcune parole – quasi tutte in piemontese – di cui non posso fare a meno perché esprimono alcuni concetti in modo davvero unico e preciso. Non so voi dove mettete il cibo per portarlo in tavola, e non mi interessano tutte quelle parole complesse e imprecise tipo ciotola, insalatiera, zuppiera e recipiente. Sono una peggio dell’altra e hanno anche un pessimo suono. Io lo metto in un grilet, e basta.

Lo stesso procedimento funziona con i modi dire. Alcuni anni fa ero in un negozio di caffettiere in Olanda e ho chiesto se avessero in vendita filtri della Bialetti. Il commesso molto premuroso ha deciso di spiegarmi anche come si usa: mi ha spiegato fin dove riempire la caffettiera di acqua, quanta polvere di caffè mettere e tutto il resto della procedura. Sono riuscita a non scoppiare a ridere mentre pensavo che vedo qualcuno preparare la moka più o meno da quando sono alta abbastanza da riuscire a guardare cosa avviene sul bancone della cucina. In questi casi c’è solo un commento possibile, e ve lo traduco in italiano per cortesia ma sappiate che in piemontese suona molto meglio: non insegnare a un gatto ad arrampicarsi.

Le parole ibride

Qui entriamo in un contesto davvero horror: mettete a letto i bambini prima di avventurarvi oltre. Dunque, dato che un po’ come delle piante abbiamo messo le nostre radici mediterranee in una terra straniera e con noi non del tutto compatibile, abbiamo iniziato a creare terribili mutazioni paragonabili a quelle che in natura sono causate da radiazioni, inquinamento o dalla mano dell’uomo. Tali ibridi, osceni tanto quanto gli acini d’uva senza seme e i fragoloni senza sapore, tipicamente non vengono condivisi con il resto del mondo. Ebbene sì, ce ne vergogniamo un po’, ma per questa volta faremo un’eccezione.

In Olanda quando viaggiamo in treno non compriamo il biglietto, ma carichiamo una tessera plastificata che funziona un po’ come le tessere delle metropolitane di Parigi e Londra. In questo modo non si perde tempo in biglietteria e se si cambia idea sul tragitto non serve rifare il biglietto. Da qui è nato il neologismo “Hai opladato la OV chip?” (cioè ricaricato la tesserina?). Altri esempi sono “Ti sei opknappata?” (messa in tiro, preparata per uscire) e “Hai sentito, hanno oppakkato un tizio” (arrestato). Mentre questi ibridi osceni sono ironici, e quindi il mio codice etico interno li accetta e perdona, riesco per fortuna a tenermi alla larga dai numerosi obbrobri di cui i miei connazionali si macchiano in continuazione semplicemente perché da traduttrice ho sviluppato una specie di semaforo rosso interno. Uno tra i peggiori è “Ho reagito a una e-mail” causato dalla confusione tra il verbo olandese reageren e quello italiano “reagire”, ma è anche piuttosto fastidioso confondere library con “libreria” e annoy con “annoiare”.

La vera creatività italiana però esce allo scoperto quando cambiamo il significato di termini o espressioni con l’ironia. Per esempio, ci piace prendere in giro bonariamente l’approccio calvinista secondo il quale qualsiasi genere alimentare dal momento in cui ci sfama è buono. Così tra amici ci scambiamo foto delle peggio oscenità – pizze con cavolo e worstje, burro di noccioline all’ananas, pancakes olandesi con formaggio e zucchero… – e commentiamo con “Lekker, hoor” (che buono!), che è diventata per noi un’espressione inadatta a qualsiasi discorso serio sul cibo. Infine l’ibrido peggiore, ma anche il più divertente, avviene quando traduciamo letteralmente in italiano modi di dire olandesi. I miei preferiti sono “Ho fatto un vasetto” (ho fatto un pasticcio) e “Tieni nei buchi che domani c’è lo sciopero dei treni” (tieni presente). In fin dei conti ripetiamo la stessa operazione perversa che tutti gli studenti di lingue del mondo compiono in continuazione – tradurre letteralmente dalla propria lingua – solo che siamo consapevoli del nostro scempio e non rischiamo occhiatacce o prese in giro.