Sguardo in alto tipo scalatori

La conoscenza della lingua locale – e delle lingue in generale – ha un ruolo importantissimo nella vita dell’emigrato, e ciò è così ovvio che stuzzica la curiosità persino degli amici rimasti in Italia e lontani anni luce dalle vicissitudini di noi italiani all’estero. Così quando torno a casa a Natale e spiego che abito in Olanda una delle prime domande che mi viene fatta è se parlo la lingua locale, e poi quale sia questa lingua. Poi ci sono quelli che mi chiedono quanto ci ho messo a diventare fluente in olandese e che credono che imparare una lingua sia un qualcosa di facile e rapido. Innanzitutto, chi abita all’estero ha una concezione del “parlare una lingua” molto diversa da chi ha sempre abitato in Italia e crede che saper dare indicazioni stradali in inglese voglia dire conoscere la lingua. In secondo luogo, imparare una lingua dopo essersi trasferiti nel luogo in cui viene parlata è molto più complesso di quanto possa sembrare dall’Italia perché anche se abbondano le occasioni per praticarla, ci sembra mancare il tempo necessario per assimilare le nozioni e lasciare che si intreccino tra di loro come un merletto, a formare frasi sempre più complesse ed esteticamente belle. Così nella prima fase ci sentiamo spesso come qualcuno che è stato mandato nel mare in burrasca senza aver mai imparato a leggere la bussola. Il passo successivo, il perfezionamento, invece mi ha spesso fatta sentire come Sisifo, impegnata prima a spingere il masso sulla cima della montagna e poi almeno a cercare di evitare di venirne travolta a ogni rotolamento. Perché non è la fatica a farmi paura, è l’impatto contro i miei fallimenti.

Allo straniero che arriva in Olanda si apre una scelta importante: imparare l’olandese oppure continuare a parlare inglese con tutti. A prima vista pare una decisione facile e unicamente basata su tempo libero, predisposizione personale e voglia, ma non è così. Infatti, anche se è vero che nella maggior parte dei casi è possibile comunicare con istituzioni, uffici e servizi di ogni tipo in inglese, è anche vero che molto spesso chi non parla olandese riceve risposte estremamente sintetiche alle sue domande – del tipo “No, non è possibile” – e ciò lo costringe a una sfilza infinita di email e di telefonate. In sostanza, se decide di parlare solo inglese lo straniero sarà agevolmente escluso da una grande quantità di informazioni a lui non accessibili e dovrà dipendere costantemente da altri per svolgere molte pratiche. Tutto ciò però ha un risvolto molto positivo che quando sono arrivata ignoravo totalmente: la protezione dalle fonti di incazzature. In sostanza, ponendosi nella situazione di chi non si vuole integrare lo straniero non sarà in grado di capire le battutine dei suoi vicini di casa e colleghi e le descrizioni largamente stereotipate del suo Paese elargite in abbondanza dai media. E poi, non essendo in grado di seguire i dibattiti e le dichiarazioni dei politici olandesi, resterà convinto di essere in buone mani.

Se invece uno straniero decide di imparare la lingua, passerà attraverso più stadi. Il primo è quello della grande salita perché, mentre in Italia dopo i canonici tredici anni di istruzione obbligatoria la maggior parte degli studenti è ancora ben lontana dal B1 in inglese (e non avete idea di quante volte l’ignoranza linguistica di noi italiani mi venga fatta pesare qui in Olanda), chi impara la lingua direttamente sul posto procede spedito come uno sherpa e ha una enorme fame di conoscenza. Così scarica app per imparare frasette e memorizzare il genere dei nomi, inizia subito a guardare la TV in olandese, leggere giornali, cercare timide conversazioni con i vicini e con la cassiera del supermercato. È bella questa fase, perché è piena di entusiasmo e positività: ringraziamo e siamo riconoscenti ogni volta che capiscono cosa diciamo, sorridiamo e chiediamo scusa quando non capiscono e non ci disperiamo ancora quando siamo noi a non capire un tubo. I progressi, che sono molti e evidenti, ci riempiono di ottimismo e ci autoconvinciamo presto che impareremo perfettamente la lingua e tutto andrà bene. Così lo straniero raggiungerà presto un livello discreto che permette interazioni base ma che nasconde ancora insidie. Ne ho parlato con un ragazzo messicano che ho conosciuto a un taalcafè, un evento in cui è possibile praticare le lingue in un contesto informale. “Riesco a comunicare bene in olandese, ho passato l’esame del livello B2 e preso la nazionalità” mi ha detto “però non riesco a esprimere emozioni in olandese”. E che ci faremo mai con le emozioni, direte voi, mica passiamo la vita a corteggiare il prossimo? Purtroppo o per fortuna la nostra vita non si basa solo sul soddisfacimento dei bisogni primari di Maslow, oltre allo stomaco talvolta dobbiamo nutrire anche la nostra anima, e le emozioni sono l’indispensabile punteggiatura delle nostre comunicazioni quotidiane. Me ne sono accorta sei anni fa quando il tecnico della linea telefonica mi ha detto che sarei dovuta restare senza Internet per una settimana. “Non riesco ad arrabbiarmi in olandese” ho pensato “devo cambiare lingua”, e gli ho mostrato tutto il mio disappunto in inglese, la mia seconda lingua. È difficile arrabbiarsi e gioire, oppure mostrare meraviglia e stupore in una lingua che si conosce da poco tempo, o che abbiamo imparato per pura necessità. Per gli altri tipi di comunicazione, invece, solo la mia lingua madre è e sarà mai adatta. Non saprò mai dire “ti amo”, sognare, reagire a uno spavento, parlare ai gatti e pregare in lingue diverse dalla mia, perché la mia anima non è bilingue.

Ma il buon straniero integrato non si ferma al livello B2. Giammai! Lentamente passerà gli esami, inizierà a ricevere complimenti e rassicurazioni da parte dei suoi insegnanti e a capire perfettamente la TV e le conversazioni tra i nativi. Ma i problemi non finiranno qui, perché gli resterà un accento, e gli capiterà spesso di rivolgersi a un nativo in olandese, e di ricevere la risposta in inglese. A prima vista può sembrare gentilezza, ma la vera ragione dietro questo comportamento è spesso piuttosto diversa. Non conosco stranieri contenti di sentirsi rispondere in inglese, e se alcuni non si arrabbiano perché in fin dei conti sono qui da pochi anni e sanno di avere ancora un forte accento, chi è qui da più tempo tipicamente si offende un po’: “Non credevo il mio olandese fosse così scarso!” è il commento che ho sentito più spesso. “Non preoccuparti, lo fanno per gentilezza e per vantarsi del proprio inglese” dico solitamente loro, anche se in realtà credo sia un modo per tenere a distanza chi sta provando a integrarsi e per fargli capire che non importa quanto ci stia provando, non ci sta riuscendo e si sente. Quindi meglio che lasci perdere e si arrenda a restare uno straniero.

La seconda categoria di persone che più temiamo è chi finge di non capire. Starete pensando: “No, guarda, non capiscono veramente!” ma vi garantisco che le conversazioni che più ci fanno arrabbiare sono le più semplici, perché gli studenti avanzati si allenano a lezione disquisendo di raffinate questioni politiche e filosofiche, ma nella vita di tutti i giorni sono abituati a evitare frasi subordinate per il terrore di non essere capiti. Però, insomma, la vostra insegnante dice che avete una buona pronuncia e padroneggiate bene la grammatica, e voi iniziate a sentirvi piuttosto sicuri delle vostre capacità e pronti a tuffarvi nelle conversazioni. Quindi andate a fare la spesa al mercato e notate che il fruttivendolo proprio non capisce che avete chiesto druiven (uva) – tra l’altro l’avete pure indicata col ditino – e non kruiden (erbe aromatiche). Vi casca il mondo addosso e state per cercare il numero di telefono di un logopedista, quando invece parlate con altri expat di lungo corso che vi spiegano che è normale. Ma si tratta davvero di un problema di pronuncia? Forse in parte sì, perché credo che chi non ha alcun contatto nella vita quotidiana con stranieri, provi uno shock incredibile quando sente un accento insolito. Tuttavia, a mio parere molti fingono invece di non capire per mantenere le distanze, per rimarcare che non siete veri olandesi anche se parlate la loro lingua, e per questa ragione questo tipo di problemi si verifica anche dopo molti anni di permanenza nelle terre piatte. Quando ho sentito una mia insegnante di olandese criticare con toni sprezzanti Ahmed Aboutaleb, il sindaco di Rotterdam, e dire che: “È nato in Marocco, ha fatto quello che poteva, ma il suo olandese non sarà mai buono” ho capito che non è davvero l’accento la questione. È più la difficoltà che si ha a lasciare uno spazio sul proprio piedistallo a qualcuno che è nato altrove e ha una storia diversa dalla nostra. Tenersi uno scalino tutto per sé è molto più comodo e vantaggioso.

Mi sono innamorata perdutamente delle lingue a dieci anni perché mi sembravano un modo per viaggiare dalla mia cameretta. Non erano solo le parole a interessarmi, mi incuriosiva l’altro e volevo entrare in mondi molto lontani da me per scoprire il sapore della differenza. Ora, molti anni dopo, finalmente so perché Calibano maledice Prospero per avergli insegnato la sua lingua. Non avevo capito che le lingue non sono sempre ponti, ma talvolta diventano muri e l’ennesimo strumento di cui si servono gli esseri umani per esercitare il proprio potere nei confronti del prossimo. Dal momento in cui conosco bene il punto di vista dello straniero, mi vengono i brividi ogni volta che vedo (o leggo) italiani prendersi gioco di chi ha imparato a fatica la nostra lingua. Forse basterebbe ricordare a chi lo fa che i bersagli delle loro critiche parlano più di una lingua, loro probabilmente no.

Todo cambia

Per descrivere come appare l’Italia agli stranieri è necessario anche analizzare ciò che vediamo noi italiani all’estero quando torniamo a casa. Come cantava Mercedes Sosa, dal momento in cui tutto cambia non è strano se cambiamo anche noi. Ci sono ovviamente molte eccezioni, ma solitamente superati i cinque anni di vita all’estero la maggior parte di noi assume comportamenti e abitudini legati al luogo (o ai luoghi) in cui ha vissuto poiché, proprio come spiegato da Darwin, anche noi esseri umani tendiamo a adattarci per sopravvivere.

Si dice che non possiamo immergerci due volte nell’acqua dello stesso fiume, perché già al secondo tentativo saremo cambiati sia noi che il fiume. Nel caso mio, però, i cambiamenti del luogo da cui vengo non sono poi così rilevanti. La crisi del 2009 ha spazzato via molti tra i miei negozi e ristoranti preferiti, ma nel frattempo ne sono stati aperti altri altrettanto ottimi. Forse il cambiamento più impressionante è che a dicembre vedo sempre meno neve sulle montagne, ma loro sono sempre allo stesso posto e la ricetta degli agnolotti con il plin non è cambiata, quindi direi che i punti saldi sono rimasti. Chiaramente, a essere cambiata sono soprattutto io.

Il punto è che chi vive all’estero cambia molto più rapidamente dei luoghi, e lo fa sotto diversi aspetti. Per esempio, è cambiato il modo in cui vedo le cose: le strade mi appaiono sempre più disastrate anche se probabilmente sono così da sempre, e ogni crepa nell’intonaco di un palazzo mi dà un fastidio enorme, perché sono convinta che l’Italia sia il Paese più bello del mondo e l’incuria mi pare uno sfregio in un quadro. Oltre al mio sguardo, anche il resto del mio corpo è cambiato. Per esempio, sono diventata impermeabile come una papera. Ebbene sì, abituata nel Nord Europa a non usare mai l’ombrello, ho preso l’abitudine a non utilizzarlo nemmeno quando sono in Italia e no, non mi prendo mai il raffreddore. Inoltre, percepisco ciò che per gli italiani è un tifone come una brezzolina leggera, soffro meno il freddo di una volta ma boccheggio molto di più in estate e, soprattutto, trovo la luce estiva in Italia quasi accecante. Inutile menzionare che i piatti della tradizione che mi annoiavano terribilmente ora hanno assunto un sapore nuovo e interessante.

Ho preso abitudini ritenute pericolose in Italia, come quella di attraversare sulle strisce pedonali senza accertarmi prima che le macchine stiano per fermarsi e di far passare più di tre secondi prima di partire allo scattare del semaforo verde. Altre abitudini invece sono quasi incivili per gli standard italiani. Per esempio, pranzo con panini e caffè americano, mi tolgo le scarpe prima di entrare nelle case altrui e considero quasi accettabile abbinare il blu con il nero e le righe con i quadri. Se vi sembrano imbarbarimenti e state pensando “Io non lo farei mai”, provate a pensare alle critiche comunemente rivolte agli appartenenti ad alcune comunità straniere in Italia. Il punto è che anche questi semplici comportamenti fanno parte di quelle norme la cui osservanza viene considerata “integrazione”, e se vi dà fastidio quando i vostri vicini di casa stranieri cucinano piatti che a vostro giudizio sono puzzolenti, pensate agli olandesi che si trovano a dover vivere vicino a piemontesi amanti della bagna cauda. Non vi sono usanze barbare e altre civili, è tutta questione di punti di vista.

Credo però che il cambiamento più grande sia avvenuto a livello mentale. Abituata a vedere discriminazioni in prima persona, gonfio la coda come un gatto ogni volta che sono gli italiani a discriminare. Il punto è che prima ancora di menzionare le malefatte degli stranieri, riassumibili nel fatto che esistono, molti italiani sottolineano la distanza tra noi e loro dicendo che “Non sono dei nostri”, e in questo modo credono di rimarcare una differenza a loro parere incolmabile. Però in quanto expat (potrei usare il termine “immigrata” ma voglio essere elegante) mentre in Italia faccio parte dei “nostri”, nel Paese in cui abito sono abituata a essere tra i “loro” e non riesco a comprendere l’importanza del pronome nel contesto del vivere civile. Ho capito che ovunque il problema è che gli immigrati rubano il lavoro agli autoctoni e talvolta, quando non sono riusciti a rubarlo o lo hanno perso, chiedono aiuti economici, ma la differenza tra i “nostri” e i “loro” è più sottile e non si basa solo su questioni pratiche. Al contrario, fa riferimento al contrasto fra chi è stanziale e quindi affidabile, e chi è forestiero e quindi probabilmente pericoloso. Così accade che, per esempio, spesso quando al paesello entro in un negozio prima ancora di essere servita mi viene chiesto se sono parente di qualcuno del posto. Tipicamente rispondo di sì perché ho capito che per uno dei “nostri” il servizio è migliore che per un forestiero, ma continuo a considerare strana la domanda.

Sempre nelle piccole città noto che le persone amano chiamarsi usando titoli, e mi fa sorridere sentire “Buongiorno geometra” o anche solo “Buongiorno Signor Rossi”. Ho faticato a far pronunciare bene il mio nome di battesimo. All’inizio insistevo, spiegavo dove cade l’accento e facevo notare che l’italiano non ha lo schwa, per cui bisogna pronunciare bene le vocali. Poi ho rinunciato e mi sono abituata a sentire storpiare il mio nome, ma conosco altri expat che per agevolare la comprensione pronunciano male il proprio nome di proposito. Così raramente sento un titolo accanto al mio cognome, ma salto ancora sulla sedia quando mettono l’accento al posto giusto.

Infine, talvolta ho l’impressione che anche le menti delle persone rimaste siano cambiate. Chiaramente sono sempre io a essere diversa, ma così mi pare. Quando incontro vecchi amici e conoscenti italiani questi spesso sono stupiti dal mio scarso interesse per le questioni locali e ciò viene interpretato come mancanza di attaccamento alle mie radici. Il punto è che, come tanti altri expat, ho traslocato talmente tante volte da aver scordato tutti gli indirizzi in cui ho abitato e gli oggetti che ho rotto nei vari traslochi. Ho iniziato a parlare più lingue quasi contemporaneamente e talvolta faccio fatica a fare frasi interamente in italiano perché mi sembra che la mia lingua non abbia parole a sufficienza o termini adatti a descrivere i miei pensieri. Noi expat non siamo però dei senza radici ma, proprio come le chiocciole, siamo abituati a portarci dietro la nostra casa – cioè ciò che siamo – in un angolino della nostra mente. Forse il nostro guscio protettivo è più essenziale di quello di chi si sente perduto all’idea di cambiare quartiere, ma garantisco che c’è tutto l’occorrente. Soprattutto, c’è tanto spirito di adattamento e tanta voglia di capire gli altri, e questo è ciò di cui abbiamo più bisogno.