Il mio sguardo critico

Da qualche tempo il mio blog ha alcuni lettori affezionati che commentano volentieri e mi lasciano le proprie impressioni. Non posso che esserne contenta perché adoro le discussioni e se non volessi sapere l’opinione altrui certamente non scriverei un blog. Tuttavia, mi è rimasta la paura di essere offensiva e mi è stato talvolta detto che non sono obiettiva o che sono troppo critica nei confronti dei Paesi Bassi, così ho deciso di fare un post in cui, per dirla in modo elegante, spiego la mia metodologia.

La cosa curiosa è la direzione delle critiche. Mi spiego meglio: cerco sempre di fare post piuttosto equilibrati e di mostrare quelli che a mio parere sono sia i lati negativi che quelli positivi di un luogo o di una cultura. In un mio vecchio post, per esempio, dicevo che gli olandesi hanno perlopiù uno stile di scrittura semplice e essenziale, e di conseguenza fanno spesso fatica a capire metafore e pensieri astratti e fumosi. Nello stesso post ironizzavo sulla conoscenza dell’inglese degli italiani. Entrambe le dichiarazioni non sono vere al 100%: esistono ovviamente olandesi che amano scrivere periodi lunghissimi e italiani che parlano benissimo l’inglese. Per quanto mi riguarda, esistono anche olandesi che non sanno l’inglese (ho insegnato per molti anni inglese qui, fidatevi che ce ne sono tanti) e italiani che ignorano cosa sia una metafora. Ebbene, mentre gli italiani erano tutti pronti ad ammettere le proprie scarse doti linguistiche, alcuni olandesi si sono offesi e mi hanno ribadito le loro abilità narrative. Che poi la semplicità è un qualcosa di bellissimo, e scrivere sempre in modo incomprensibile come facciamo noi italiani è una condanna, ma vabbè. Altre volte, soprattutto nei gruppi Facebook di expat italiani, ho notato che ad arrabbiarsi per la minima osservazione non propriamente positiva sul Paese estero in cui vivono sono proprio gli italiani, che invece applaudono ogni critica spietata nei confronti dell’Italia. Non so se la causa di questo atteggiamento siano i secoli di dominazioni in Italia, ma certo siamo molto servili nei confronti degli stranieri.

Per scongiurare problemi futuri vorrei spiegare qui il mio approccio, e per farlo vorrei partire da un aneddoto. Alcuni anni fa ho tenuto un corso di letteratura in inglese presso una università americana qui nei Paesi Bassi. Prima dell’esame finale gli studenti dovevano presentarmi un elaborato che doveva essere una “analisi critica”. Una studentessa mi ha chiesto dubbiosa: “Ma io voglio fare il mio lavoro su una femminista che stimo moltissimo. Come faccio se non trovo nulla di negativo su di lei?”. Non aveva capito che l’essere critici significa analizzare fatti e situazioni cercando di mantenere uno sguardo oggettivo, e questo è l’atteggiamento che cerco di avere. Lo faccio sempre, ogni giorno, in ogni ambito. Analizzo tutto cercando aspetti positivi e altri negativi. Avete presente Lucy dei Peanuts? Ecco, sono io. Ho imparato a farlo all’università dal mio amato prof di filosofia, che ogni giorno a lezione ci invitava a riflettere sui fatti di cronaca per scoprire un punto di vista nuovo, e non ho intenzione di smettere.

Da sempre sostengo sia indispensabile avere uno sguardo critico nei confronti del Paese in cui viviamo, sia esso l’Italia o un Paese estero, e questo atteggiamento è ancora più necessario se nei confronti di quel posto è scoccata la scintilla. Mi spiego meglio. All’università avevamo tutti una lingua e una cultura del cuore, e la mia era quella della perfida Albione. Non so bene perché sia andata così, credo per colpa di David Bowie, ma non saprei dire. Alcune mie compagne di corso invece dicevano di amare la Francia perché i ragazzi francesi sono tutti belli (non so se sia vero, ma una mia amica aveva una solida teoria al riguardo) altre la Spagna perché là tutti ballano in continuazione e si ubriacano di sangria. L’amore è irrazionale, si sa. A un certo punto però è diventato necessario andare sul posto a toglierci le fette di prosciutto da davanti agli occhi.

Così in Inghilterra ho scoperto luoghi in cui la depressione è così visibile che si respira nell’aria, e sembra aver contaminato non solo le città ma soprattutto i cuori delle persone. Ho lavorato come interprete per i servizi sociali, e ho visto cose che sfuggono al turista che si fa la foto davanti a Buckingham Palace. Ho visto persone accusate di furti che non avevano commesso, immigrati truffati dai datori di lavoro che sono finiti a non saper come sopravvivere, giovani che spendevano in droghe e alcol l’intero ammontare del proprio sussidio di disoccupazione e padroni di casa che stipavano gli studenti stranieri in case fredde e dai muri ammuffiti. Ho conosciuto professori universitari fantastici e altri crudeli, incontrato studenti timidi e gentili e altri viziati che non avevano mai viaggiato in seconda classe in vita loro. Ho camminato lungo scogliere mozzafiato e in posti di una bruttezza indescrivibile, speso un capitale per viaggiare in treni costosi e inefficienti e accelerato il passo la sera per evitare gruppi di ubriachi molto fastidiosi.

Il mio amore per la lingua è rimasto, quello per il Paese è cambiato ma non se n’è andato. Se pensate a una storia d’amore vi verrà facile capire cosa intendo. Prima c’è la fase in cui vediamo il principe azzurro e poi quella in cui arrivano anche i suoi difetti, che lo fanno scendere dal cavallo e lo rendono più reale. Non so bene come sia andata davvero con Biancaneve, ma io non mi sarei lasciata ammaliare da un bacio e un conto in banca prestigioso. Solo dopo aver conosciuto tutti i difetti del principe – anche i più disgustosi – avrei deciso se stare con lui.

Mi è stato detto che ho un punto di vista un po’ negativo nei confronti dei Paesi Bassi, e se devo ammettere che la scintilla non è mai scoccata perché non ho davvero scelto in modo del tutto libero di vivere qui (ho seguito il lavoro del mio partner), va anche detto che non nego di scorgere aspetti positivi nel Paese. Però questi non mi impediscono di guardare anche gli altri, quelli negativi. Di base, amo soffermarmi sull’attrito che fanno la mia cultura e quella olandese quando si incontrano: una – la mia – fondata su bellezza e edonismo, l’altra incentrata su efficienza e frugalità. Capirete bene che il risultato di questo sfregamento sono scintille continue, e che il fenomeno è troppo interessante per non essere descritto.

Confesso che invidio moltissimo gli italiani all’estero che postano foto di tulipani e dicono di aver trovato il proprio paradiso in terra perché “qui fa meno caldo che in Italia in estate”. Sì, l’ho letto veramente una volta su Facebook. Mi piacerebbe svegliarmi, vedere il sole che brilla (ogni tanto capita) e saltellare nei prati verdi come fa la Pimpa. Però non riesco a farlo. Non riesco a fare a meno di pensare che idealizzare un Paese e ignorare tutti i suoi lati oscuri sia ammissibile solo nei primi anni, quando effettivamente non si conosce bene la lingua e non si è in grado di osservare la realtà. Poi dopo, dobbiamo necessariamente essere in grado di vedere bene cosa ci circonda. Per capire cosa intendo pensate al sonetto 130 di Shakespeare: paragonare gli occhi della propria amata al sole e le sue labbra al corallo è offensivo nei suoi confronti. È molto meglio amarla per quello che è veramente.

Circostanze italiane

Un mese circa fa si è ripetuto un rituale a cui sono, purtroppo, ben abituata. La rivista inglese The Economist ha pubblicato un editoriale secondo il quale i recenti guai della Gran Bretagna l’avvicinerebbero all’Italia, corredato dall’originalissima e nient’affatto stereotipata copertina con Liz Truss e un forchettone di spaghetti. Dov’era la necessità di menzionare l’Italia, non bastava dire “Ce la passiamo male?”. No, il tutto si spiega con l’inguaribile arroganza di cui sono affetti molti Paesi del Nord Europa.

I giornali italiani ne hanno parlato con toni piuttosto scandalizzati, con alcune eccezioni. Nell’articolo di Federico Fubini del Corriere si spiega che in realtà la perfida Albione se la passa notevolmente peggio di noi. Innanzitutto, non abbiamo mai licenziato un ministro dell’economia dopo 38 giorni e un premier dopo 45. In secondo luogo, il tracollo che la sterlina ha subito alcune settimane fa sarebbe impossibile in Italia perché abbiamo l’euro. Poi la penisola è il settimo esportatore mondiale e mantiene le sue quote di mercato, mentre la Gran Bretagna è il quattordicesimo e ha visto le sue vendite crollare dal 2017. Mentre Fubini tratta questioni economiche, John Foot su Internazionale parla di quelle politiche. Per esempio, abbiamo una costituzione che ha evitato un’eccessiva concentrazione del potere, un senato eletto dagli elettori (no, i Lord non sono eletti) e un capo di stato eletto dal Parlamento che non è al di sopra del diritto come un re. Infine, John Foot ricorda come menzionare la cucina sia un modo facile per parlare alla “pancia” dei lettori inglesi, che conoscono l’Italia soltanto come turisti. Ma L’Italia ha saputo mostrare notevoli abilità anche dal punto di vista tecnologico sviluppando, per esempio, un’ottima rete di treni ad alta velocità: chi ha avuto la disavventura come la sottoscritta di viaggiare spesso in Inghilterra in treno ha rimpianto moltissimo i treni italiani.

La questione mi ha fatto venire in mente un documentario del 2012 di Bill Emmott (ex direttore dell’Economist) che si chiamava Girlfriend in a coma. La fidanzata in questo caso era l’Italia – Paese che l’autore diceva di amare molto – che era a suo parere in un coma profondo dal punto di vista non solo economico ma anche politico e sociale. All’epoca mi era piaciuto molto, ma ero ancora nella fase in cui mi sarei fatta convincere di qualunque cosa dal Paese che mi ospitava: che dovevo sentirmi fortunata per essere dov’ero, che ero in debito e che comunque prima o poi avrei ottenuto un successo sfolgorante semplicemente perché non ero più in Italia. Questo è l’effetto di una sindrome che colpisce quasi tutti gli emigrati e il cui effetto dura per un numero variabile di anni. Per fortuna questa fase è finita e ho riacquistato la capacità di essere più oggettiva. Osservando i movimenti e le parole di Cameron già anni fa era possibile intravedere lo sfacelo all’orizzonte in Gran Bretagna. Poi l’isola per cui provo ancora un grande fascino ha deciso di fare harakiri, e i vari leader da Cameron in poi – tutti upper-class e cresciuti tra scuole private e università prestigiose – hanno dimostrato la loro incapacità. L’Inghilterra è un Paese in cui il tipo di rapporto fra gli appartenenti alla classe alta e quelli delle classi popolari è lo stesso che c’è in natura tra un koala e un orso polare. Ciò implica una difficoltà enorme a prendere decisioni giuste per tutti, e ciò significa che a mio parere anche Rishi Sunak, che ha dichiarato in un’intervista di non avere mai avuto amici provenienti da famiglie operaie, non ha grandi possibilità di riuscita.

Tornando al rapporto dell’estero con il nostro Paese, ho riscontrato la stessa arroganza molte volte anche qui in Olanda. Innanzitutto, ricordo la copertina del Telegraaf di un anno fa intitolata Napolitaanse toestanden cioè “Circostanze napoletane”. La circostanza in questione si è verificata quando l’incaricata di condurre i colloqui per mettere insieme una coalizione di governo (ci hanno messo quasi un anno prima di trovare una quadra) scopre all’improvviso di avere il Covid. Scappa dalla riunione ma tiene gli appunti sotto un braccio, pericolosamente rivolti verso il pubblico che assiste alla scena. Un fotografo scatta una foto, fa un ingrandimento e scopre fior di intrallazzi per liberarsi di un politico scomodo. Forse bastava un “Figura di m…” ma il Telegraaf ha deciso di tirare in ballo Napoli.

Obbietterete “Ma quelli sono giornali, devono fare titoli in grado di attirare l’attenzione”. Effettivamente il Telegraaf è un giornale di pessima qualità noto per titoli provocatori tipo Libero in Italia (solo che ha una tiratura molto maggiore), ma non sono davvero le copertine il problema. Ciò di cui non mi capacito non è nemmeno il desiderio di accanirsi contro il Paese in cui vanno in vacanza quanto il non riuscire a vedere cosa li circonda. Volete qualche esempio? Da maggio l’aeroporto di Amsterdam è in crisi profonda perché manca il personale dei controlli di sicurezza. Il tutto ha portato a code infinite e alla cancellazione di molti voli. Una sorte simile è toccata ai treni: se già c’erano problemi prima (i treni olandesi non amano il ghiaccio, la neve, le foglie e le temperature superiori ai 30 gradi) ora manca pure il personale, così molti treni sono stati cancellati e tanti altri accorciati, e trovare un posto a sedere in certi orari è sempre una sfida.

Eppure solo due settimane fa un mio studente ha detto che non viaggerebbe mai in Italia in treno, perché certamente dei treni italiani non c’è da fidarsi. Ma ho sentito affermazioni simili rispetto a così tanti ambiti e situazioni (ospedali, aeroporti, scuole, uffici…) da immaginarmi i loro viaggi in Italia come dei safari in una giungla in cui da un momento all’altro potrebbe spuntare fuori un leone e divorare tutti. Se l’Italia è davvero un luogo pericoloso abitato da creature infide, inaffidabili e totalmente incapaci, perché rischiano così tanto e vi si avventurano? Sono forse a caccia di emozioni forti?

Credo che dietro questo atteggiamento vi sia un po’ di invidia nei confronti dell’Italia, ma in tutta onestà sono soprattutto io a invidiare molto l’atteggiamento nord-europeo, perché credo che questo mix di arroganza (“Noi siamo i migliori”) e di miopia (“Qui va tutto bene”) sia eccezionale, ti dà uno stato d’animo sicuro e orgoglioso con il quale si affrontano meglio le situazioni difficili. Soprattutto, invidio questa profonda fiducia nel proprio Paese e nelle proprie capacità, e so per esperienza personale che è spesso il principale segreto dietro al successo di individui e gruppi. Il punto è che l’impegno non è nulla se la sindrome dell’impostore ci segue ovunque andiamo, se guardiamo agli altri sempre con l’atteggiamento di chi non ha fatto i compiti. Così se c’è qualcosa che davvero dobbiamo imparare dai nostri vicini nordeuropei è un po’ di orgoglio misto a sana arroganza.

I’ve got the power

Il mio primo incontro con un emigrato è avvenuto molti anni fa. Ero ancora una studentessa universitaria e avevo partecipato a uno scambio organizzato dalla mia università con quella della cittadina tedesca di Bielefeld. Lì ho avuto l’opportunità di incontrare Salvatore, un signore siciliano che ha lasciato negli anni ‘60 la Sicilia per andare a lavorare in Germania. Al termine del suo racconto in tedesco è passato all’italiano, perché le emozioni si raccontano meglio nella propria lingua, e ci ha spiegato la sua condizione. “Sapete” ha detto a questo gruppetto di ragazze italiane che lo fissava con curiosità “ora sono pensionato e mi sono comprato una casetta in Sicilia dove vado per trascorrere le vacanze. Ma là sono un tedesco, mentre per i tedeschi qua sono e sarò sempre un siciliano”. Il carico di emozioni è cresciuto ancora quando ho incontrato la figlia e il genero di Salvatore, anche lui un italiano. Mentre lei, nata e cresciuta in Germania, faceva un po’ fatica a fare un discorso complesso nella nostra lingua, lui ci ha fatto una richiesta un po’ particolare: “Ricordateci ai nostri connazionali in Italia, perché si sono dimenticati di noi”. All’epoca mi era sembrata una richiesta un po’ melodrammatica, ora inizio a capirne il senso, anche se cerco di non scivolare mai nel melodramma e, se sento che sta succedendo, mi aggrappo all’ironia, un approccio che mi è decisamente più congeniale.

Noi italiani all’estero capiamo perfettamente lo stato d’animo di Salvatore, ma ne parliamo raramente, perché in fin dei conti dobbiamo tenere bene sotto controllo stati d’animo ed emozioni, e certi ambiti sono rischiosi. A volte però giochiamo a fare una gara di metafore. Una delle migliori viene da un conterraneo che lavora nella ristorazione, che ne ha formulata una attinente al suo settore: “Non siamo più né aglio né cipolla”. Anche se bella e utile a ricordarmi i sani principi del soffritto, penso sempre che essere un qualcosa di diverso dai due protagonisti del sugo di pomodoro non sia una tragedia. Magari la perfetta base per il sugo ancora deve essere scoperta e saremo noi a farlo.

La mia metafora preferita è decisamente più positiva: abbiamo acquisito dei poteri straordinari e siamo diventati dei supereroi. Si sa che i supereroi non hanno una vita relazionale proprio semplice, però in fin dei conti hanno un superpotere che gli invidiamo tanto, e che li ricompensa di tutto il resto. Ecco qui il mio elenco dei superpoteri degli emigrati.

La super lingua

Quando ho lasciato l’Italia avevo appena ultimato una laurea specialistica in letteratura inglese e passato l’IELTS Academic con un mega punteggio, eppure arrivata in Inghilterra ho scoperto di aver ancora molta strada da fare, perché mi mancava totalmente l’inglese colloquiale (parolacce incluse) e l’humour, e poi non sapevo distinguere né comprendere gli accenti. Quando ho iniziato a capire e a ridere a crepapelle alle battute di John Bishop, un famoso comico di Liverpool, ho capito che il mio inglese stava finalmente andando nella direzione giusta. Ho capito che imparare le lingue in Italia è assolutamente possibile, ma solo all’estero assumono spessore ed è possibile imparare le sfumature di significato e affinare il proprio orecchio.

Poi, dopo alcuni anni all’estero le conoscenze strettamente linguistiche e quelle comunicative si intrecciano e vanno a costituire un nuovo fantastico superpotere. Per esempio, noi emigrati sappiamo che se andiamo dal nostro capo inglese con una proposta e lui ci risponde: “Are you sure about that?” non vuole sapere se ne siamo sicuri, ma pensa che sia una completa idiozia. Se questa è la reazione dei timidi inglesi, un capo olandese invece vi dirà ciò che pensa nel modo più diretto e brutale possibile, perché nelle terre piatte tutto è efficiente – anche la comunicazione – e nessuno ha tempo e parole da sprecare. Così noi emigrati abbiamo imparato a adattare la comunicazione orale e scritta in base al Paese in cui siamo andati a vivere.

Ma il superpotere delle lingue non si ferma qui. Wittgenstein diceva che i limiti delle lingue sono i limiti del nostro mondo, poiché non possiamo descrivere concetti dei quali non possediamo le parole. Avete mai sentito un vostro conterraneo emigrato all’estero dire: “Come dicono in [nome del posto in cui vive]” prima di spiegarvi un modo di dire o un termine che non può essere tradotto? Non si sta vantando del suo superpotere, vuole semplicemente esprimere un concetto o una sfumatura che nella vostra lingua non esiste. A ogni nuovo modo di dire o espressione che imparo mi sento come un passerotto che sta allenando le proprie ali per voli che un giorno (forse) non conosceranno limiti.

Il super adattamento

Nei miei primi cinque anni all’estero ho cambiato casa sette volte e accumulato così tante esperienze – perlopiù negative – da riempire un’enciclopedia. Innanzitutto, ho capito che in Inghilterra le case vanno visitate più con il naso che con gli occhi, perché questo è l’unico modo per scovare l’onnipresente macchia di muffa, che spesso viene sapientemente coperta dalle tende. Poi mi si è rotto il riscaldamento nell’unica giornata decisamente sottozero dell’anno, ho abitato alcuni mesi in una stanza praticamente grande quanto un letto singolo e avuto tante fantastiche disavventure che vi lascio solo immaginare.

Così quando sento stanziali disquisire per ore sul tessuto delle coperte da comprare o lamentarsi del fatto che hanno potuto portarsi dietro “solo” una valigia in vacanza, mi viene da sorridere. Noi emigrati sviluppiamo costantemente il nostro spirito di adattamento fino a portarlo a livelli impossibili, siamo delle chiocciole abituate a spostarsi con solo l’indispensabile, a dare costantemente una nuova forma al proprio mondo.

La super conoscenza

Prima di trasferirmi in Olanda sapevo ben poco del Paese, ma ho presto capito che solo parlando con gli olandesi avrei potuto ottenere le informazioni che mi interessavano. Per esempio, conoscevo a grandi linee la storia del Paese, ma si trattava di nozioni imparate sui libri di scuola e totalmente prive di emozioni. In Olanda ho visto che quando le persone parlano del Secolo d’Oro (il XVII secolo) e della VOC (la Compagnia delle Indie orientali) improvvisamente si illuminano, un po’ come quando noi italiani ci riempiamo di orgoglio nel vedere gli sguardi dei turisti davanti ai capolavori del Rinascimento. Ho capito che sentirsi raccontare la storia da chi la “sente” davvero dà un nuovo spessore alle nostre conoscenze, e che è qualcosa che nessun libro di scuola può darci.

Allo stesso modo so che molti italiani non hanno capito perché gli inglesi hanno votato per la Brexit, ma a chi come me conosce un po’ il nord-est dell’isola è apparso subito evidente. Purtroppo, certi aspetti non si capiscono leggendo i quotidiani italiani (che dedicano così poca attenzione all’estero) o in qualche giorno di vacanza, bisogna parlare con chi è del posto e imparare a vedere con gli occhi dei local.

La migrazione ci regala l’abilità di vedere certe situazioni da un punto di vista diverso. Così, anche se è certamente vero che abbiamo perso il contatto con il punto di vista italiano – lo dimostra il fatto che alle ultime elezioni politiche gli italiani all’estero hanno votato in modo molto diverso da quelli in Italia – ne abbiamo acquistato uno diverso, che guarda oltre i confini di uno Stato e abbraccia tutto il continente che è diventato ora la nostra vera casa.

La super comunicazione

Questo è il superpotere più difficile da spiegare. Il punto è che ovunque io mi trovi, all’estero o in Italia, sento di avere particolare facilità a relazionarmi con altre persone che in quel momento hanno lo status di straniero. So che pare strano, ma noto sempre che mentre gli stanziali hanno qualche attimo di esitazione (forse stanno pensando: “Chissà se morde”), a noi emigrati basta uno sguardo e stabiliamo subito un contatto.

So che è facile legare questo superpotere alla nostra abilità linguistica e all’abitudine a comprendere accenti “non convenzionali”, ma credo sia soprattutto il risultato della nostra condizione. Da anni vivo con la perenne consapevolezza del mio status di “altro”, e so che il minimo dettaglio (un gesto, una parola, il mio accento…) può tradire la mia identità e influenzare (spesso negativamente) la reazione degli altri. Forse è grazie a ciò che ho facilità a comunicare e fare amicizia con chi, proprio come me, so essere in costante cammino su una corda, in perenne ricerca di equilibrio tra il desiderio di essere sé stesso e quello di nascondere la propria identità per integrarsi meglio.

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Ora veniamo, ahimè, alle dolenti note. Così come i super eroi sono spesso costretti a nascondere la loro vera identità, anche noi emigrati abbiamo qualche problemino con i nostri superpoteri. Mi sono accorta nel corso di colloqui di lavoro sia in Inghilterra che nei Paesi Bassi che i datori di lavoro invece di apprezzare le nostre incredibili capacità comunicative e la nostra flessibilità, hanno dubbi rispetto alle nostre qualifiche, e sono tanti gli stranieri come me ad aver riscontrato questo problema. Semplicemente, credo che all’aprirsi di una posizione loro abbiano già in mente un titolo di studio ben preciso che il candidato ideale deve possedere, e le nostre qualifiche molto spesso confondono gli addetti al personale. Diciamo che assumere noi è un po’ come comprare un pacco sorpresa: è possibile che il valore del contenuto sia di gran lunga superiore al costo, ma dato che i nostri ingredienti non sono indicati chiaramente sulla scatola si tratta comunque di un rischio che pochi vogliono correre. Così continuiamo imperterriti a accumulare corsi e attestati in ogni luogo in cui andiamo a vivere per dimostrare che abbiamo certificazioni in ogni lingua e che abbiamo compiuto notevoli sforzi per adattarci, solo che a ogni corso veniamo considerati dei principianti, come se il nostro curriculum precedente non esistesse. Forse anche la nostra perseveranza e la nostra pazienza senza limiti sono un superpotere.

Gli stranieri e i politici italiani

Oggi vorrei tornare alla questione che mi ha fornito lo spunto iniziale per questo blog: “Cosa pensano di noi gli stranieri?”. Chi mi fa questa domanda solitamente si dà anche una risposta senza lasciarmi riflettere: “Spaghetti, pizza e mandolino, vero?”. Non so bene cosa voglia dire pensare di qualcuno “spaghetti”, perché non è una frase di senso compiuto. Però posso dire che a volte pure quell’idea senza senso degli spaghetti è più piacevole di ciò che pensano davvero. Insomma, è giunto il momento di parlare di politica.

Il mio primo lavoro all’estero è stato l’insegnante di italiano in una scuola privata spersa nella campagna del Somerset. Ricordo ancora benissimo il mio primo incontro con il collega di letteratura inglese: mi avevano invitata alla cerimonia per l’inaugurazione dell’anno scolastico, che si sarebbe tenuta nella bellissima cattedrale di Wells. Prima della cerimonia i colleghi mi invitano a prendere un caffè con loro – sì, nelle cattedrali inglesi spesso c’è una caffetteria – e un tipo si avvicina, mi tende la mano e mi chiede (ovviamente in inglese): “Ah, sei italiana? E cosa ne pensi delle ronde leghiste?”. Faccio lo sguardo del capriolo che fissa immobile i fari dell’auto. Capisce cosa sto pensando: “Sorry, deve essere un argomento imbarazzante”. Il caro collega poi ha recuperato la mia considerazione quando mi ha detto di essere un grande fan di Dante, ma il primo incontro è stato tragico.

Negli anni successivi è arrivato il peggio: una sfilza incredibile di domande fatte a volte con curiosità ingenua ma spesso con un pizzico di perversione e tanta voglia di mettermi in imbarazzo. L’argomento è sempre lo stesso: Berlusconi. Di lui mi hanno chiesto come hanno fatto gli italiani a votarlo, se fa ancora le sue feste assatanate (la parola “bunga-bunga” è tra le parole in italiano più note all’estero, credo stia per scalzare “lasagna”), quanti anni hanno le sue innumerevoli amanti, se è davvero così come appare sui giornali esteri e perché si tinge i capelli. Ho tollerato pazientemente le domande finché almeno Silvio faceva parte del governo e poi, quando è uscito dalla maggioranza, ho pensato: “Troveranno qualche altra sciocchezza da chiedermi, se lo dimenticheranno”. E invece no, anche ora che la sua influenza sul panorama politico italiano si è notevolmente ridotta, Berlusconi è una delle persone che vengono più frequentemente associate all’Italia. Ora la domanda è: “Ma come fa a essere ancora lì?”, e tipicamente mi chiedo: “Lì dove? Dobbiamo mandarlo via come abbiamo fatto con i Savoia per farvi contenti?”. Il problema è che la vera domanda che molti vorrebbero pormi, ma che è sempre ben nascosta dietro le altre in quanto un pochino proibita, è: “Ma come avete fatto a essere così sciocchi da votarlo per tutti questi anni?”.

Credo che i media esteri siano in buona parte responsabili della situazione. Ho tentato di contare i libri scritti su di lui in Italia e all’estero negli ultimi trent’anni, ma ho lasciato perdere. Perché poi ci sarebbero gli articoli di giornale, e poi i documentari e i servizi dei telegiornali, tutti strutturati in modo tale da sottolineare la depravazione del politico e solitamente incentrati sui particolari più scabrosi. Per fortuna, ho trovato un’eccezione. In Proeftuin Italië gli storici olandesi Pepijn Corduwener e Arthur Weststeijn raccontano il berlusconismo fin dalla sua nascita e mostrano come l’Italia sia semplicemente il luogo in cui vengono “sperimentati” fenomeni che poi si spandono per il continente o persino in tutto l’Occidente. Così, mentre sono in molti a vedere Berlusconi come l’archetipo del tipico italiano superficiale, macho e poco rispettoso delle regole, pochi altri hanno compreso che è semplicemente stato il creatore di trend quali la personalizzazione della politica e la scomparsa dei partiti tradizionali, sostituiti da movimenti che promettono di incarnare i valori e il linguaggio dell’uomo comune.

Tuttavia, credo che la considerazione che i media e i cittadini esteri hanno della politica italiana non cambierà mai, e a mio parere ciò è dovuto anche agli indubbi vantaggi degli stereotipi, che ci aiutano a capire il mondo senza fare troppa fatica. I Paesi e le loro relative culture sono davvero troppi per poter leggere saggi storici su ciascuno, mentre gli stereotipi ci permettono di incasellare tutti i popoli e le loro caratteristiche in modo semplice e veloce, e vengono utilizzati anche dai giornalisti. Infatti, mentre quelli italiani – esterofili proprio come noi – descrivono le meraviglie del misterioso estero ed elencano le magagne del proprio Paese, i corrispondenti esteri cercano meticolosamente conferme ai loro luoghi comuni forse perché stupire il proprio pubblico sarebbe difficile e anche in parte controproducente. In fin dei conti gli stereotipi sono rassicuranti: cosa pensereste a scoprire che anche in Svizzera i treni sono talvolta in ritardo? Sareste contenti o pensereste “Neanche in Svizzera i treni sono più puntuali! Dove andremo a finire?”. Al mondo serve un posto in cui i treni sono sempre puntuali. E allo stesso modo servono luoghi che incarnino ogni possibile bruttura della società moderna così da lasciar credere chi abita al di là delle Alpi che nel proprio Paese, dato che non c’è Berlusconi, va tutto assolutamente bene.

Questione di stile

Quando mi sono trasferita all’estero uno degli aspetti che più mi ha colpita positivamente è stato lo stile di abbigliamento delle donne. Per “stile” non intendo il buon gusto nella scelta e nell’abbinamento di capi e colori, perché noi italiane siamo abituate a osservare regole assolutamente ignote nel nord Europa. Intendo la maggiore libertà con cui le donne scelgono cosa indossare. Avevo 26 anni, e mi era stato insegnato che la fase in cui è accettabile indossare minigonne ultracorte e shorts che lasciano poco spazio all’immaginazione termina intorno ai 30 anni, ma si può prolungare nelle località marittime. Mi è bastato prendermi una birra in un pub di Newcastle per capire di avere ancora molti anni di minigonne estreme davanti a me, sempre che la prospettiva mi interessasse.

La stessa situazione si è ripetuta in Olanda. Appena il termometro ha sfiorato i 23 gradi ho incontrato donne sulla sessantina con indosso pantaloncini corti decisamente molto sopra il ginocchio e top ultra-scollati con reggiseno a vista. Quando la temperatura ha raggiunto i 30 ho visto persino colleghe insegnanti in prendisole. Potete poi facilmente immaginare gli effetti collaterali legati all’abitudine di indossare minigonne e abitini svolazzanti anche quando si va in bici. Anche qui ho abbracciato questa tendenza con grande joie de vivre e atteso con ansia le giornate più tropicali per sfoggiare vestitini e pantaloncini che in Italia sarebbero stati relegati al percorso casa-spiaggia.

Così capite che sono rimasta alquanto sorpresa quando ho scoperto che la maggior parte dei miei studenti olandesi crede le italiane vestano in modo sconcio. In seguito ad approfondite analisi ho capito che a monte di questo luogo comune ci sono i quiz televisivi di RAI1 e Canale5. Per qualche strana ragione – garantisco, io non c’entro – devono aver pensato che seguirli potesse aiutarli a migliorare il loro italiano. Così alcuni di loro ancora faticano a comprendere le indicazioni stradali, ma sanno dire “Ghigliottina!” e “La accendiamo?”. Ho cercato di spiegare che le italiane non vanno solitamente in giro vestite come le vallette TV e non fanno balletti ammiccanti in pubblico ma non c’è stato nulla da fare. Poi ho avuto la pessima idea di invitarli a guardare il Festival di Sanremo e di chiedere la loro opinione, e il giudizio è stato sempre lo stesso: vi vestite con le tette di fuori e vi truccate in modo troppo appariscente.

Per molto tempo ho continuato a chiedermi come facessero a sostenere questa opinione. Il punto è che hanno davanti a loro ogni settimana la sottoscritta, rigorosamente intabarrata da testa a piedi in strati su strati di lana da ottobre ad aprile inoltrato. Pensavo di far venire loro qualche dubbio, e invece niente. E poi non riuscivo a capire come facessero a rimanere convinti della loro idea dato che vanno ogni estate in vacanza in Italia e girano la penisola in lungo e in largo. Poi finalmente ho trovato la soluzione dell’enigma: la risposta va cercata nel confirmation bias. In pratica, consiste nel cercare instancabilmente conferme alle proprie ipotesi ignorando tutte le prove contrarie. In una grande città italiana probabilmente l’attenzione dei miei studenti sarà stata attratta dalle poche ragazze giovanissime in shorts, e avranno ignorato la folla di trentenni e quarantenni intorno a loro poco truccate e molto vestite.

Il confirmation bias è una pratica molto comune da sempre in tutte le culture. Perciò, vi invito a sfruttare questo mio post per riflettere sui luoghi comuni che avete degli stranieri: sono sostenuti da dati oggettivi, o quando avete visitato quel Paese eravate a caccia disperata di conferme ai vostri stereotipi? Vi faccio qualche esempio: i francesi con cui avete parlato in vacanza erano davvero tutti altezzosi, o forse vi è bastato un rapidissimo scambio con un cameriere stanco e stressato circondato da un branco di turisti chiassosi per maturare questa teoria? Dite che la cucina tedesca è terribile ma le vostre uniche esperienze al riguardo sono limitate ad autogrill? Vi è bastato vedere la cianfrusaglia in vendita nei negozi per turisti di Londra per convincervi che gli inglesi adorano Sua Maestà? Se la risposta a queste domande è sì, forse dovete spingere il vostro sguardo un po’ più in là.

The passenger

Nel suo libro Italian Ways Tim Parks descrive la cultura italiana analizzando il nostro comportamento sui treni. Mi sono così resa conto di quanti aspetti tipici della nostra cultura siano visibili in un semplice viaggio, e ho iniziato a rendermi conto degli elementi che mi caratterizzano come italiana, e che dopo molti anni all’estero ancora sono rimasti immutati.

Uno degli aspetti che più turba Parks nelle sue trasferte quotidiane è l’abitudine tutta italiana di chiacchierare con i compagni di scompartimento. Lui vorrebbe usare il tempo trascorso in viaggio a leggere, si è preso un buon libro e non vede l’ora di aprirlo… e invece c’è sempre qualcuno pronto a disturbarlo perché in Italia, a differenza di molti Paesi stranieri, solo i treni ad alta velocità hanno le silent coach, le carrozze in cui è vietato parlare e fare rumore. Ciò è semplicemente legato alla nostra cultura. Sui treni ci piace raccontare le nostre storie non per farci gli affari altrui o interrompere la lettura dei nostri compagni di viaggio, ma perchè per noi raccontare la nostra vita sul treno è come andare dallo psicologo: ci rasserena, a volte ci aiuta persino a trovare le soluzioni dei nostri problemi. La bellezza di tutto ciò sta nel fatto che sappiamo che i nostri segreti, magari taciuti da anni, non saranno svelati o magari usati contro di noi dai nostri interlocutori. Sappiamo che non saremo giudicati, e se anche fosse, non ne subiremo mai le conseguenze. In sostanza, il treno è il luogo ideale per raccontare la propria vita, dettagli scabrosi e inquietanti inclusi. Un altro aspetto positivo del racconto sul treno è che è parziale e cioè tipicamente finirà prima di stufarci irrimediabilmente. Così restiamo a metà storia e possiamo immaginare sviluppi incredibili. Non è un caso che persino il programma di Gianluca Nicoletti per Radio24 “Il treno va” racconti storie usando il leitmotiv del treno: il treno predispone al racconto.

L’aspetto divertente delle questioni culturali è la reciprocità. Infatti, così come Parks non sopporta il dover rispondere alle domande invadenti dei suoi compagni di viaggio, uno dei lati negativi del viaggiare su e giù per l’isola era per me proprio il non poter conversare con i miei vicini. Nei tre anni in cui ho vissuto a Exeter ho viaggiato spesso in treno: ogni sei settimane circa andavo a Newcastle percorrendo circa seicento chilometri all’andata e altrettanti al ritorno. Per placare almeno in parte i sensi di colpa per l’essere in un luogo diverso dalla biblioteca del mio dipartimento, mi portavo solitamente dietro il mio fidato computer portatile, almeno due libri cartacei e centinaia di pdf. Le prime quattro ore scorrevano abbastanza rapidamente tra lo studio, il tentativo di scrittura, l’osservazione del meraviglioso panorama del Somerset e l’analisi dei comportamenti dei miei compagni di viaggio. Poi subentrava la noia: mi compravo un caffè pessimo che ustionava istantaneamente lingua ed esofago e iniziavo a guardarmi intorno della speranza di riuscire a fare due parole con qualcuno. Però mi è quasi sempre andata male: gli unici suoni che sentivo intorno a me erano le telefonate di lavoro e l’annuncio che ricordava di prendere le proprie valigie prima di lasciare il treno. Nient’altro.

Solo una volta sono riuscita a scambiare due parole con una compagna di viaggio: era una distinta signora scozzese sulla settantina che ha deciso di raccontarmi la storia della sua vita nel tratto tra York e Sheffield. Così ho scoperto che da giovane faceva l’infermiera, che ha viaggiato molto, divorziato da un certo numero di mariti e che stava andando al funerale di sua zia. Spero che la conversazione l’abbia aiutata a sfogarsi un pochino; io posso dire di aver apprezzato il suo accento e il suo humour, e di essermi sentita fortunata per essere stata scelta come depositaria di un pezzetto della sua storia.

Ma non sono l’unica ad aver sempre molto apprezzato i racconti sul treno. Quando insegnavo italiano all’università venivo spesso invitata alla cena con i ragazzi appena tornati dall’anno all’estero. Appena scoperto che i treni in Italia hanno prezzi molto più contenuti rispetto al resto del continente (sì, sul serio) si sbizzarrivano in viaggi lunghissimi su e giù per la penisola. Ecco, uno degli aspetti preferiti di questi viaggi erano le conversazioni in treno poiché, appena i loro compagni di viaggio scoprivano di avere tra di loro uno studente inglese, decidevano di depositare nel malcapitato – che a quel punto non poteva più scappare dallo scompartimento – parte del loro sapere. Così i miei studenti hanno scoperto modi di dire e parolacce, si sono sbarazzati del proprio accento inglese (ovviamente sostituito dai nostri accenti regionali), hanno capito come si cucina il ragù e ottenuto i nomi dei migliori ristoranti di mezza Italia. Nessuno di loro si è mai lamentato di queste conversazioni. Al contrario, mi hanno raccontato estasiati l’entusiasmo dei loro compagni di viaggio italiani e l’incredibile voglia di “spiegare l’Italia” nello spazio di un viaggio.

Molti anni fa in Italia anche io ho avuto un’esperienza simile a quelle dei miei studenti. In una sera di metà gennaio ho preso l’ultimo treno per tornare a casa dall’università e, dato che gli scompartimenti sembravano essere tutti pieni, sono stata ospitata nelle cuccette da due coniugi calabresi che erano venuti a Torino a trovare la figlia e stavano tornando a casa in Calabria. Mi hanno raccontato della vita a Torino negli anni ’70 e del lavoro in FIAT e posso garantirvi che il loro racconto era molto più vivido delle immagini che talvolta vediamo nei film e nei documentari. Dopo mezzoretta circa hanno estratto da uno zaino due panini ultra-farciti di dimensioni incredibili, e mi hanno chiesto “Vuole favorire?”. Io sarei scesa dopo un quarto d’ora, loro avrebbero raggiunto la loro destinazione solo il mattino seguente. Quella richiesta così cordiale mi è sembrata un vero dono. Forse Parks al posto mio avrebbe scartato la cuccetta e continuato a cercare uno scompartimento tutto per sé. Peccato.

L’Italia immaginaria degli stranieri

Ho sentito per la prima volta definire l’Italia come “il Paese dove fioriscono i limoni” al corso di letteratura tedesca all’università, e mi è stata subito antipatica. Il punto è che dove sono nata io gli alberi di limone non fioriscono proprio, e nemmeno danno frutto. Tipicamente li impacchettiamo in inverno per trasformarli in sculture di Christo, e quando li spacchettiamo in primavera li scopriamo spesso defunti. A volte li teniamo sul balcone e li veneriamo come delle divinità se ci donano anche solo un paio di miseri limoni rinsecchiti all’anno. Eppure, vi assicuro che sono nata in Italia.

Ciò che non tollero di questa frase è il suo rappresentare un Paese da cartolina: bello ma incredibilmente piatto e stereotipato, privo della ricchezza del nostro patrimonio artistico e culturale. È un’immagine superficiale e adatta solo a chi non ha tempo né voglia di liberarsi dei luoghi comuni per scoprire la vera Italia.

Ma torniamo per un attimo alla mia lezione di letteratura tedesca. Dopo averci letto il brano il mio professore disse: “Vedete, questo è l’immaginario che i tedeschi ancora hanno dell’Italia. E poi vanno in vacanza a Rimini!” dove, si sa, non ci sono limoni. Il mio prof aveva assolutamente ragione: per gli stranieri l’Italia è solo una cartolina. Da quando vivo all’estero cerco costantemente di smontare questa Italia fittizia per restituire agli stranieri tutte le sfaccettature della nostra cultura. Il risultato? Ogni informazione che fornisco loro viene puntualmente elaborata e utilizzata per confermare la veridicità dei loro luoghi comuni. Talvolta semplicemente non mi credono: in quanto italiana sono geneticamente predisposta alla menzogna. In poche parole: offro loro la vera Italia, e mi vengono restituiti sempre e solo stereotipi.

Ho quindi deciso di aprire questo blog per portarvi questa Italia immaginaria, per farvi notare le profonde differenze culturali che ci dividono dai nostri vicini di casa inglesi e olandesi e per promuovere la conoscenza reciproca, che è l’unico modo per combattere gli stereotipi. E poi vorrei migliorare l’autostima degli italiani e sfatare il mito dell’“estero”, quel luogo mitologico dove nessuno commette errori, le scuole sono sempre eccellenti, le strade linde e tirate a cera, i politici competenti e i ladri in via di estinzione. Solo prendendo coscienza delle nostre qualità riusciremo finalmente a sfruttare il nostro incredibile potenziale.