L’illusione del pick and mix

La mia prima esperienza lavorativa all’estero è stata l’assistente di lingua italiana in una scuola superiore privata molto d’élite spersa nelle verdi campagne del Somerset, in Gran Bretagna. Non avevo mai insegnato in precedenza, ed è lì che mi sono state spiegate le tecniche base, che ho poi affinato negli anni successivi. Dato che ero discretamente giovane e molto sognatrice, ogni volta che tornavo a casa in Italia raccontavo ad amici e parenti che avevano in qualche modo a che fare con l’insegnamento le meraviglie della scuola inglese, e sognavo di poter un giorno fare la rivoluzione in Italia. Il primo passo secondo me era il licenziamento in tronco di tutti i bidelli, semplicemente perché da me non c’erano. Poi sognavo di togliere dai muri i crocifissi, e sostituirli con lavagne digitali e poster utili all’apprendimento. Infine, sognavo lezioni meno frontali e più attive, con tante attività studiate per sviluppare competenze ben precise e il pensiero critico degli studenti.

Negli anni successivi ho continuato a registrare ciò che mi piaceva dei Paesi in cui ho vissuto e a sognare di esportarlo in Italia. Per esempio, ho pensato che sarebbe bello avere un sistema come quello olandese per i treni: invece di fare i biglietti basterebbe avere una tessera ricaricabile che si avvicina a un lettore ogni volta che si sale e si scende dal treno. Un sistema automatico scala dalla nostra tessera il costo relativo al percorso compiuto, così si evitano code e si riduce al minimo il personale di biglietteria. Poi ho sognato un’anagrafe come in Olanda, in cui ogni operazione si può compiere in pochi minuti su appuntamento. E infine ho immaginato nelle nostre strade piste ciclabili ben fatte e magari separate dalle auto (così nessuno ci può parcheggiare sopra). Non mi sono limitata a sognare e ho perfino cercato in prima persona di incoraggiare la rivoluzione digitale italiana chiedendo “Posso pagare con il bancomat?” nei bar italiani, ma ho ricevuto sempre e solo occhiate di disapprovazione.

Mentre osavo dire queste fantasticherie ai miei conterranei, che sono esterofili fin nel midollo e quindi hanno sempre supportato le mie idee con grandi sospiri e affermazioni del tipo: “Eh, sarebbe bello, ma da noi in Italia le cose non cambieranno mai”, non dicevo gli aspetti che non andavano cambiati. Per esempio, non dicevo che ero orgogliosa di aver fatto la maturità in Italia perché gli esami scolastici in Inghilterra mi sembravano troppo semplici. Non raccontavo che le biblioteche in Olanda sono bellissime, ma per prendere in prestito libri bisogna fare un abbonamento piuttosto costoso. Allo stesso modo ogni volta che qualcuno mi diceva: “Beati voi che non pagate l’autostrada” non svelavo quanto costano ogni anno bollo e assicurazione.

Infatti, in totale silenzio – tanto nessuno in Italia mi avrebbe creduta o assecondata – avevo creato anche una lista con le “cose” italiane che avrei esportato volentieri. Al numero uno c’è senza dubbio il nostro sistema sanitario, così da far contenti i miei connazionali nelle terre piatte che sprecano parte delle proprie vacanze al paese natio per fare esami del sangue e visite specialistiche di prevenzione che qui sarebbero impossibili da fare (“niente sintomo, niente esame” è la regola olandese) e evitare le solite scene di panico tra italiani che chiedono accertamenti e medicine e medici di base che rispondono: “Prendi il paracetamolo. Torna se stai decisamente peggio”. In seconda posizione nella mia lista ci sono l’agricoltura e l’allevamento non intensivi che, in quanto chiaramente poco efficienti, sono poco presenti qui in Olanda.

Quando sentivo parlare dei cervelli in fuga pensavo che la mia conoscenza superiore delle cose del mondo mi sarebbe valsa in Italia un’accoglienza trionfale con tappeto rosso e spargimento di petali di rosa. Infatti, avrei potuto spiegare loro come si fanno le cose al di là delle Alpi, e quindi rendere migliore il mio Paese che da sempre guarda oltre le montagne con sospiri e tanta invidia. Però il mio era un atteggiamento molto superficiale e, in definitiva, mi sbagliavo di grosso. La mia idea di scegliere singoli aspetti della vita all’estero da installare in Italia ricordava da vicino l’operazione che facciamo quando ci aggiriamo con un sacchetto in mano in un negozio di caramelle, e scegliamo accuratamente solo quelle che ci piacciono. Le mentine e le liquirizie sì, gli orsetti gommosi no. Non avevo capito che l’organizzazione del vivere civile è strettamente collegata alla cultura e alla storia di un Paese, e che quindi ciò che funziona perfettamente all’estero sarebbe destinato a naufragare in Italia, e viceversa. Ciò non ha – o almeno non solo – a che fare con la difficoltà di cambiare le nostre abitudini ma, come spiega bene questo articolo, è legato proprio ai principi e i valori che contraddistinguono ciascun popolo. Non esiste superiorità o inferiorità ma solo differenza, e copiare dal vicino come facevamo a scuola durante le prove di matematica non funziona.

Però ciò non vuol dire che le esperienze di noi che abbiamo vissuto all’estero sarebbero del tutto inutili. Certo, non nel modo che vi aspettate, ma sarebbero vitali. Raccontandovi gli stereotipi e ciò che di noi fa arrabbiare gli stranieri potremmo aiutarvi a interagire meglio con loro. Potremmo cercare di curare l’esterofilia congenita di voi italiani parlandovi delle cose che funzionano davvero bene in Italia, così da farvi smettere di mugugnare e farvi diventare un pochino più orgogliosi di voi. Potremmo mostrarvi come abbiamo rivoluzionato le nostre abitudini per adattarci a vivere in Paesi molto diversi dal nostro, e incitarvi a fare lo stesso per migliorare l’ambiente che vi circonda. Però ho capito che così come nulla può scalfire la fiducia che gli abitanti del nord-Europa hanno nei propri Paesi, così nulla può intaccare il disfattismo italiano. In sostanza, non credo ci ascoltereste. Probabilmente continuereste a criticare il “sistema” guardando a un estero che conoscete solo molto superficialmente.