Galateo minimo per le interazioni con gli stranieri

A volte nel mio blog ho parlato della difficoltà a avere conversazioni piacevoli con alcuni autoctoni, ma devo ammettere che le domande inopportune raramente sono intenzionali. Dalle interazioni con i miei vicini di casa – perlopiù over 60 sempre vissuti in una cittadina con pochi stranieri – ho capito che le loro gaffe sono semplicemente il risultato di una scarsa abitudine ad avere a che fare con il misterioso “altro”.

Questo problema mi ha fatto venire in mente una vecchia Bustina di Minerva, la rubrica che teneva ogni settimana Umberto Eco sull’Espresso. Ricorderete tutti quando Berlusconi chiamò il neoeletto Obama “abbronzato”. Le reazioni alla sua ennesima uscita infelice furono come al solito diverse: chi si vergognava, chi diceva che non era affatto una gaffe e non c’era nulla di offensivo, chi pensava che Berlusconi fosse proprio un simpaticone. Eco spiegò che l’espressione non era inequivocabilmente offensiva e chiaramente non era questo l’intento. Il punto è che cosa diciamo (e come lo diciamo) svela al mondo il nostro intimo più dell’abito che indossiamo.

In questo caso, alcune frasi lasciano intendere che certe persone non hanno avuto molto a che fare in vita loro con persone provenienti da altri Paesi. Non c’è nulla di offensivo, intendiamoci, magari alcuni avrebbero voluto viaggiare molto o lavorare in un ambiente internazionale e non ci sono riusciti, ma certamente questo è il risultato. Lo straniero tipicamente capisce la situazione, porta pazienza e non commenta, però probabilmente cercherà di evitare contatti con quella persona in futuro se possibile. Quindi, se volete (o dovete) avere molto a che fare con stranieri ecco il mio piccolo vademecum.

1. “Può ripetere per favore?”

A volte lo straniero vi chiede di ripetere cosa avete detto non perché ha problemi con la vostra lingua, ma perché non ha sentito. Molte possono essere le cause: problemi di udito, era distratto, avete bofonchiato, c’è molto rumore o la stanza ha una pessima acustica. Spesso la reazione del locale è di passare all’inglese. Non fatelo: se ha problemi con la lingua ve lo dirà lui.

2. Tutto il mondo (o quasi) è paese

La scrittrice nigeriana Chimamanda Ngozi Adichie in un suo discorso per il TED ha raccontato di quando, appena arrivata negli Stati Uniti, la sua compagna di stanza americana le ha prima fatto i complimenti per il suo inglese e poi le ha chiesto di farle ascoltare “la sua musica tribale” e lei le ha allungato una cassetta di Mariah Carey.

Allo stesso modo gli olandesi spesso si stupiscono quando dico che in vita mia ho ascoltato più musica in inglese che in italiano. Una volta una signora mi ha chiesto stupita: “Ah, come mai non ti piace Eros Ramazzotti?”. La globalizzazione è arrivata anche nella provincia italiana da cui provengo ed è forse la causa dell’iscrizione di molte ragazze alla facoltà di lingue straniere. Ma gli esempi sono molti e anche non attinenti alla musica perché, per esempio, pare strano che una italiana non vada a messa la domenica e parli bene l’inglese. Il punto è: non esotizzate lo straniero, spesso è davvero molto simile a voi.

3. “Tu dove andare?”

Una volta sul treno in Italia ho sentito una distinta coppia italiana parlare in modo davvero bizzarro con un ragazzo straniero: lui si esprimeva in un italiano molto semplice ma non troppo scorretto, loro hanno improvvisamente smesso di declinare i verbi. Sembrava di guardare un cartone animato.

A me è invece capitato che il locale si mette a fare gesti mentre parla. “Siete venuti in macchina?” mi chiede, e intanto muove le mani come se avesse un volante. Mancava poco che facesse “brum brum”. Avevo appena letto e firmato un complicatissimo documento sulla privacy in olandese e questo avrebbe potuto convincere la persona davanti a me delle mie doti linguistiche. E invece no. Magari non parlate come un politico della prima repubblica a uno straniero appena arrivato, ma evitate gesti sciocchi e sgrammaticature. Se scandite bene le parole e tenete sotto controllo la velocità lui vi capirà.

4. “Come vanno le tue lezioni di lingua?”

Nove anni fa questa era una domanda logica, ora non più. Molti però me la fanno ancora credendo che il motivo per cui parlo poco è che non ne sono in grado. E invece ci sono almeno centinaia di altre ragioni: perché sono timida, perché a volte non so cosa dire, perché “bel tempo, vero?” non mi pare una conversazione, perché alcune persone mi stanno antipatiche, perché a volte sono stanca o di fretta… Però spesso ciò porta il mio interlocutore a pensare che non so parlare la sua lingua e si infila in una domanda un po’ inopportuna.

5. Il nativesplaining

Dopo il mansplaining c’è anche chi vuole spiegare allo straniero cose che sa già (in Piemonte diciamo “non insegnare al gatto ad arrampicarsi”). Mi è successo la prima volta quando vivevo in Inghilterra da poco tempo. Ero andata con alcune colleghe allo Starbucks, e una di loro mi ha vista in difficoltà davanti al menù. Era la mia prima volta nella famosa catena di caffetterie, e mi ero persa tra dimensioni, sciroppi e frappuccini… così lei ha deciso di aiutarmi. “That’s a ‘latte’. It means ‘milk’”. Meno male che è venuta in mio soccorso, da sola non ci sarei mai arrivata!

Poi anni dopo un commesso in un negozio di caffè mi ha spiegato come funziona una Bialetti e l’amministratore di condominio mi ha svelato l’esistenza delle stufette elettriche. Ecco, dello straniero sapete poco: potrebbe avere un livello di istruzione minimo oppure una cultura sterminata. Voi limitatevi alle spiegazioni base e entrate nei particolari solo se ve lo chiede.

6. “Sei alta per essere italiana!”

Nei miei quattordici anni di permanenza all’estero ho capito che per gli stranieri le italiane sono tutte come Monica Bellucci. Diciamo che non è un brutto stereotipo… però non corrisponde molto al vero. Così molti hanno commentato con stupore la mia statura (1,85m) o mi hanno detto che ho la pelle scura anche se a dire il vero sono più pallida di molti olandesi.

È senza dubbio vero che in Italia la mia statura è più straordinaria che nei Paesi Bassi, ma è anche vero che noi italiane non siamo tutte le classiche donne con riccioli scuri e vestito a sirena che vediamo nella serie TV del commissario Montalbano. Quindi meglio evitare commenti sul fisico perché sono spesso basati su stereotipi che poco hanno a che fare con la realtà. Io, per dire, prima di trasferirmi pensavo che in Olanda tutti fossero come Ruud Gullit e Clarence Seedorf, gli unici olandesi che mi venivano in mente.

7. Parlate la stessa lingua

A volte lo straniero in Olanda chiede – e giustamente ottiene – di parlare inglese. Spesso però parla olandese e si vede rispondere in inglese. Questo mi è successo innumerevoli volte, e talvolta mi sono trattenuta a fatica dallo scoppiare a ridere perché ho assistito a conversazioni di parecchi minuti in cui lo straniero e il locale parlavano due lingue diverse. A volte poi – sì, nelle piccole città accade – il locale arrancava in inglese e lo straniero era perfettamente a suo agio in olandese.

Non passate automaticamente all’inglese pensando di fare un favore allo straniero. Potrebbe non parlarlo, o magari sta cercando di fare esercizio nell’altra lingua. È persino possibile che lo parli molto meglio di voi, e questo vi espone a una potenziale figuraccia che vi sareste potuti evitare.

8. Per nome e cognome

Nei miei quattordici anni di vita all’estero molti hanno cercato di decifrare la mia provenienza basandosi sul mio nome e cognome. Il risultato è stato piuttosto divertente, perché ho capito che chi si chiama Elena deve essere per forza di origine greca o slava. Il mio cognome invece mi ha portata nei paesi baschi e una volta persino nei Caraibi.

Il punto è che i popoli da sempre si spostano e i cognomi non sono in grado di aiutarci a capire la provenienza di qualcuno. Per fare qualche esempio, un mio compagno di classe a un corso di olandese si chiamava Witteveen ma era equadoregno, ma conosco francesi e brasiliani con cognomi tedeschi e olandesi con cognomi indonesiani. Invece di provare a indovinare la provenienza è meglio chiedere.

9. La corretta pronuncia

A proposito di nomi e cognomi… non abbiate paura di chiederci la pronuncia. Sappiamo benissimo che alcune combinazioni di suoni (tipo il /ch/ in italiano) sono difficili per gli stranieri, ma ci secca sentire pronunciare male il nostro nome ogni giorno da persone a noi vicine. Siamo pazienti in alcune situazioni – stiamo sempre sulle spine nelle sale d’aspetto perché non sappiamo mai come verrà storpiato questa volta e se riusciremo a riconoscerlo – ma ci piace quando colleghi e vicini pronunciano bene il nostro nome. Chiedeteci di spiegarvi come si pronuncia, lo faremo volentieri, anche più volte.

10. Ti spiego il tuo Paese

I media stranieri amano occuparsi dell’Italia specialmente quando c’è di mezzo qualche nefandezza. Nei miei numerosi anni all’estero ho visto innumerevoli reportage dei telegiornali sulla Costa Concordia, sulla mafia e sui ponti crollati, pochi sulle nostre eccellenze. Ciò porta gli stranieri a pensare di aver capito proprio tutto dell’Italia (e a volte anche a credere che il problema principale dell’Italia siano tutti i suoi abitanti).

Così capita a volte che il giorno dopo un evento che ci ha posti sulle prime pagine di tutti i quotidiani esteri l’autoctono provi a spiegarti il tuo Paese: “Ahh, io lo so perché il ponte di Genova è crollato”. Dato che si stavano ancora cercando le vittime questa frase mi è sembrata piuttosto inopportuna. Ma lo stesso avviene puntualmente dopo ogni elezione politica, quando l’italiano all’estero vorrebbe darsi malato per non incorrere nei commenti dei colleghi che vanno due settimane in vacanza in Italia ad agosto, ma si credono fini conoscitori di questioni che sfuggono alla maggior parte di chi nella penisola è nato e cresciuto. Leggete e cercate di informarvi da fonti attendibili, ma non spiegate allo straniero il suo Paese. Piuttosto, se la situazione lo permette (cioè, se lo straniero ne ha voglia), chiedetegli di spiegarvelo lui. Potrebbe raccontarvi un punto di vista privo di stereotipi al quale altrimenti non avreste accesso.

Vacanze italiane

Ogni tanto mi piace fare l’antropologa. Non immaginatemi però in viaggio verso luoghi remoti e inospitali, perché in realtà non mi muovo dalla mia scrivania. Negli ultimi sei mesi ho osservato da vicino una tribù molto interessante – i turisti olandesi amanti dell’Italia – da una postazione molto comoda: i gruppi Facebook. Lì ho scoperto le mete più amate (il lago di Garda in pole position, ovviamente), le loro attività preferite (mangiare e bere vale come attività?) e i problemi principali (come direbbe Montalbano “guidiamo come dei cani drogati”), ma ho deciso di soffermarmi sulle questioni culturali per capire bene le caratteristiche dell’Italia immaginaria degli olandesi, e paragonarla al Paese che conosco io.

Nelle mie osservazioni ho notato che molti non si accontentano di godere di sole, bei panorami e ottimo cibo. Il problema è che loro non sono semplici turisti ma viaggiatori/esploratori, e vogliono “capire” davvero il posto in cui si trovano e fare esperienze che elevino il loro livello di conoscenza del Paese ospitante e della sua cultura. Così c’è la signora che chiede chi conosce un ristorante in cui il cuoco viene al tavolo a spiegarti come si cucina e chi a metà agosto vuole assistere alla spremitura delle olive. C’è persino quello che vorrebbe tanto andare a cercar tartufi con un autentico trifolau. Tutte queste attività – magari nella stagione giusta – sono in realtà davvero possibili nella nostra Penisola, ma sono delle pure recite organizzate a scopo turistico. Così nella ricerca della “vera” Italia i nostri esploratori finiscono per fare quanto di più fasullo possa esistere.

Come già menzionato, vi sono due tipi di turisti. Quello semplice ha spento i recettori e l’elaboratore centrale e non cerca di trarre informazioni da quanto lo circonda, perché sarebbe uno spreco di energia, e lui è in vacanza. Beato lui. L’altro, l’esploratore, ahimè ha il sistema sempre in modalità ON, anche se i sensori a volte avrebbero bisogno di una regolata. Così, molti turisti tornano in Olanda con l’idea secondo la quale nessuno, ma proprio nessuno, in Italia parli inglese. Non hanno pensato che forse la commessa del supermercato e il benzinaio non hanno ragione di parlare inglese perché vedono pochi stranieri l’anno, mentre il medico o l’insegnante conoscono una lingua straniera, ma non hanno avuto modo di incontrarli. Non hanno nemmeno pensato che forse anche in Olanda le commesse non parlano poi così bene inglese, ma che è difficile rendersene conto se ci parli sempre insieme in olandese. So benissimo che la conoscenza media dell’inglese è molto più alta in Olanda rispetto al mio Paese, ma l’uso della parola “nessuno” mi infastidisce un po’. E poi faccio fatica a comprendere la mancanza di sfumature – tra il parlare o no una lingua esistono molti stadi intermedi – e mi sembra eccessiva la pretesa di aver visto e fotografato alla perfezione il panorama delle competenze linguistiche in Italia in due settimane di vacanza.

Però devo ammettere che osservare la realtà che ci circonda e notare le differenze è anche piuttosto normale. Tuttavia, solo una profonda conoscenza della cultura locale ci può permettere di trarre conclusioni sensate. Così mi imbatto in una signora che ha postato una foto del reparto macelleria di un supermercato italiano e si è chiesta come mai in Italia la maggior parte dei supermercati abbia un bancone con un “vero” macellaio che taglia bistecche e prosciutto su richiesta dei suoi clienti. In Olanda i supermercati non hanno un bancone macelleria con dipendenti, ma persino nelle macellerie vere e proprie raramente il proprietario taglia qualcosa davanti a voi: il più delle volte si limita a porgervi una vaschetta con un prodotto già porzionato, o vi allunga un pezzo da arrosto confezionato sottovuoto e magari proveniente dall’Uruguay. Le reazioni sono state molteplici. Da chi ha detto “Bellissimo! Così tutto è più fresco” a chi ha pensato fosse un modo per utilizzare meno imballaggi, fino al commento frugale: “Mi sembra poco efficiente perché devi pagare lo stipendio a più persone”. Tutti hanno guardato la foto, e nessuno ha visto. Pensare che la soluzione all’enigma era così semplice. Noi italiani vogliamo un macellaio in carne, ossa e affettatrice perché il prosciutto appena tagliato ha una consistenza e un profumo a cui non vogliamo rinunciare. Perché vogliamo fargli preparare un taglio di carne proprio su misura per noi mentre lo bombardiamo di domande sulla razza della bestia, la data di macellazione, gli chiediamo di togliere per bene il grasso e gli facciamo giurare che la bistecca è tenera e non si restringerà nella padella. È questione di sapore e di cultura alimentare, tutto qui.

Non soli ricordi e esperienze ci si porta dietro, ma anche souvenir. Lo faccio anch’io – eccome se lo faccio – ma mi ha stupita moltissimo l’enorme differenza tra la mia “spesa dell’emigrato” (così la chiamiamo noi expat) e la spesa del turista straniero in Italia. Per quanto riguarda gli alcolici, l’unico liquore che tutti gli olandesi comprano in Italia convinti che solo qui sia davvero buono è il limoncello, ma molti invece acquistano direttamente l’alcool a 90° (molto più caro in Olanda) e i limoni, per avviare una mini-produzione casalinga. Nonostante gli enormi sforzi di Slowfood per la promozione delle ricette tipiche e dei prodotti locali, gli stranieri continuano a conoscere ben pochi prodotti tipici: gli olandesi cercano i cantucci (che loro chiamano “biscotti”) ovunque in Italia, e poi acquistano parmigiano, olio, pesto in barattolo e talvolta pasta secca. In poche parole, esattamente come facciamo noi turisti italiani quando andiamo a caccia di burro d’arachidi negli Stati Uniti, anche gli olandesi invece di andare alla scoperta di qualcosa di nuovo si portano dietro i prodotti con cui identificano l’Italia da sempre. Tuttavia, ho scoperto che fanno scorta di un prodotto davvero insospettabile. Siete pronti? Si tratta dell’ammorbidente per il bucato Felce Azzurra. Dicono abbia il profumo delle vacanze, e non posso che capire il loro desiderio di portarsi dietro un pezzetto di estate perché so bene quanto le fragranze siano delle specie di tappeti volanti che ci fanno viaggiare nello spazio e nel tempo. Però le mie memorie italiane sono l’aroma delle caldarroste, dei funghi porcini, degli alberi di fico e delle panetterie. Pensavo che l’Italia avesse gli stessi odori per tutti e mi sbagliavo di grosso: non avevo capito che ciascuno di noi ricorda i profumi della “propria” Italia.

Infine, la mia deformazione professionale mi ha portata ad analizzare anche le parole usate per definire i posti in cui amano andare, e mi sono accorta che uno dei termini più ricorrenti è authentiek, autentico. Ho capito che authentiek è per loro il borgo con stradine strette, pavimentazione in pietra e gerani rossi alle finestre. Per loro questa è l’Italia autentica, e tutto il resto è da evitare al punto che, chi ci capita per sbaglio, chiede agli altri dove sono le località più autentiche nelle vicinanze. Questi luoghi non vengono solo ammirati per un pomeriggio: spesso gli olandesi cercano di soggiornarvi perché se questa è l’Italia autentica loro vorrebbero vivere alcune settimane da italiani veri. Così una vacanza diventa una strana forma di recita e gli italiani, questi strani elfi che mangiano in continuazione e gesticolano molto, le inconsapevoli comparse.

Il punto è che non avevo mai pensato esistessero luoghi autenticamente italiani nel mio Paese. Per me l’Italia è quella porzione di Terra compresa tra le Alpi e Lampedusa, i due estremi tra i quali tutto è autenticamente italiano. Per me Italia vuol dire borghi pittoreschi e tenuti come il salotto buono della nonna e borgate di periferia devastate da abusi edilizi negli anni ‘60, città d’arte e altre di provincia in cui i malcapitati turisti vengono guardati dai locali come fossero alieni. Tutto ciò è Italia, il Paese delle contraddizioni e delle sfumature. Invece il termine authentiek fa riferimento alla penisola immaginaria che i turisti hanno già in mente nel momento in cui varcano le Alpi. Così vanno a cercare quel Paese da acquerello a buon mercato, pretendendo di sapere cosa è autentico e cosa no.

Non ho davvero nulla contro il turismo, purché il turista sia consapevole dei limiti del suo ruolo e non creda di poter usare le sue tre settimane di ferie per divenir del mondo esperto. Ho avuto modo di vedere per bene le contraddizioni di questi ruoli quando dico a conoscenti italiani che ho vissuto in Inghilterra per cinque anni: “Ah, sì, bella l’Inghilterra” mi dicono “la conosco bene, sono stata due volte in vacanza a Londra e ho visto Buckingham Palace”. Raramente sono stati al di fuori di Londra, e mai e poi mai in posticini non propriamente upper-class come Middlesbrough o Sunderland. Spesso conoscono l’inglese in modo superficiale ma pretendono di aver compreso tutto quel che c’era da comprendere. Invece come turista – per esempio, in Spagna – ho visitato solo i luoghi raccomandati dalla mia guida, senza conoscerne la lingua e solo superficialmente la cultura. Non credo di aver capito cos’è la Spagna e scoprirlo non era lo scopo del mio viaggio, così come non credo esista una Spagna autentica. Ciò che posso dire è che ho passato una vacanza piacevole, ho visto luoghi meravigliosi, comprato alcuni souvenir bellissimi, sviluppato una dipendenza dalla sangria e mangiato una paella che mi ha riappacificata con il creato. Non credo si possa chiedere di più a una vacanza.

credits foto: https://www.ilgiornale.nl/

L’erba del vicino

In un suo recente articolo Ilja Pfeijffer, scrittore e poeta olandese che vive a Genova, parla del tipico complesso di superiorità olandese. In sostanza, gli olandesi sentono di non avere nulla da imparare dagli altri Paesi perché sono convinti di vivere in un Eden in cui tutto è assolutamente perfetto. Questo sentimento è ben visibile se consideriamo l’aggettivo “intelligente” con cui il premier Rutte ha definito il primo lockdown olandese, che fa pensare che tutti gli altri Paesi abbiano adottato misure “stupide”. Persino quando guardano alla vicina Germania, dove la macchina organizzativa della sanità ha funzionato meglio, sentono di non aver ragione per volerli imitare. Proprio come in occasione delle partite di calcio, anche se i disciplinati e obbedienti tedeschi hanno vinto gli olandesi si sentono comunque i vincitori morali.

Quando ho letto l’articolo di Pfeijffer ho pensato che in realtà la percezione di venire dal miglior Paese del mondo appartiene un po’ anche a me. Circa una volta l’anno vado in Italia in macchina e puntualmente quando finalmente vedo le Alpi e mi accingo ad attraversarle provo una sensazione difficile da descrivere a parole. È un brivido che sembra scioglierti la tensione dalle spalle e dalla schiena e mi fa desiderare di avere altri due occhi per godermi meglio la vista di ogni singola cima. Quando sento declamare un canto di Dante o ascolto una canzone di De André provo dispiacere pensando a chi non capisce l’italiano e non potrà mai avere accesso a certi capolavori. E ogni volta che mi fermo sulla cima di una collina per fare una foto al Monviso – che manderò ai miei studenti con il segreto intento di farli crepare d’invidia – penso a quando abitavo là e la vista del Monviso non mi emozionava un granché, perché sognavo piuttosto il mare del Nord e le scogliere di Dover. Il punto è che la percezione di venire dal miglior Paese al mondo è arrivata solo dopo molti anni all’estero, dopo aver capito un po’ meglio come funziona il mondo.

Con l’unica eccezione del cibo, al quale siamo attaccati in maniera quasi ossessiva e morbosa, noi italiani abbiamo una sudditanza psicologica nei confronti del misterioso estero. Lo conosciamo poco, ma lo invidiamo tanto. Nel corso degli anni ho sentito dire che all’estero non c’è criminalità, le strade sono pulite e tirate a cera, non esistono politici disonesti e il lavoro si trova sempre. Nel dire ciò non faccio riferimento solo alle opinioni umarelliche ma anche a quanto descritto da riviste, giornali e servizi dei telegiornali che non fanno che magnificare l’evoluto estero. La leggenda del lavoro, poi, è ripetuta così ossessivamente che chiunque osi dire che non è vero viene prontamente zittito persino su un social “formale e educato” come Linkedln. Il problema è che ciascuna di queste affermazioni, oltre a tante altre che non cito ora, sono palesemente false e sarebbero facili da smentire, ma non c’è nulla da fare. Nulla può scalfire la fama dell’infallibile estero. Però questo nostro atteggiamento disfattista riduce notevolmente le nostre chance di successo e ci fa sprecare moltissime energie.

Ma cosa sarà poi questo misterioso estero? Così come in questo blog vi mostro l’Italia immaginaria che traspare dalle descrizioni degli stranieri, il nostro estero è un qualcosa di assolutamente irreale. Innanzitutto, non si identifica con nessun Paese preciso: l’unico dato di cui son certa è che se è descritto positivamente sicuramente si trova più a nord dell’Italia, come se le Alpi fossero state messe lì per proteggere non noi, ma tutti gli altri. Per il resto, i suoi particolari sono avvolti nella nebbia più fitta, che appiattisce differenze regionali e uniforma cose e persone trasformando tutto in un pastone finto e inconsistente ma facile da descrivere.

Persino in tempi di virus, dopo che prestigiose testate internazionali hanno detto che l’Italia ha reagito piuttosto bene, continuiamo imperterriti a trovare difetti nel nostro Paese. Così, ogni volta che provo a raccontare ad amici e parenti l’enorme pasticcio in cui sono finiti Paesi “evoluti” (dal momento in cui sono più a nord di noi, non può che essere altrimenti) come l’Olanda e la Gran Bretagna mi viene ricordato che i banchi singoli non andavano comprati, che c’è gente che non indossa la mascherina e che il governo non ha fatto tutto ciò che avrebbe dovuto per prevenire la seconda ondata. Simili errori sono stati fatti ovunque, ma non importa: all’estero certamente sono meglio di noi.

Ma qual è il giusto rapporto che dovremmo avere con ciò che accade oltre i nostri confini? Proverò a spiegarlo con il noto detto sull’erba del vicino. Mi pare ovvio che se il mio dirimpettaio ha appena fronteggiato e respinto un’invasione di afidi faremmo bene a chiedergli come ha fatto (anche perché potrebbero venire a disturbare anche noi). Però passare troppo tempo a fissare i suoi fiori può finire con il distrarci dalle enormi potenzialità del nostro giardino. E poi prima di cantare le lodi dell’erba del nostro vicino sarebbe meglio accertarci di persona che davvero da lui non ci siano cespuglietti infestanti. La soluzione è una sola ed è sempre la stessa, è a portata di mano ma pare così lontana: è necessaria una profonda conoscenza reciproca.

Altre abitudini alle mie latitudini

“Altre abitudini alle mie latitudini…” cantava Gianmaria Testa. Credo che queste diverse abitudini siano sempre state evidenti agli immigrati con spirito di osservazione, ma gli approcci talvolta totalmente diversi con cui i diversi Paesi europei hanno recentemente reagito alla pandemia ci hanno mostrato la grande differenza culturale all’interno del nostro piccolo continente.

Alcuni mesi fa, mentre gli italiani faticavano a trovare mascherine nelle farmacie, qui in Olanda ai cittadini veniva detto che non era necessario metterle perché bastava mantenere la distanza minima di 1,5m tra le persone. Anche qui mancavano le mascherine negli ospedali, ma nessuno ha osato dire che lo Stato era disorganizzato.

La questione mascherine è arrivata solo da inizio giugno, quando sono diventate obbligatorie sui mezzi di trasporto pubblico. Sento arrivare l’osservazione: “Sicuramente gli olandesi rispettano le regole, non come noi…” e la placco subito: ho visto comportamenti virtuosi sia in Olanda che in Italia, ho visto persone incuranti e distratte in entrambi i Paesi. Qui in Olanda ho assistito a discussioni animate tra passeggeri che sostenevano che l’uso della mascherina fosse una violazione alla loro libertà personale, e una settimana fa si sono tenute manifestazioni in molte città contro non solo l’uso delle mascherine ma anche la distanza interpersonale e i vaccini.

Negli altri luoghi pubblici quali bar, ristoranti, farmacie e persino parrucchieri la mascherina non viene usata dai clienti, ma nemmeno da chi ci lavora. Non la usa chi prepara le vostre bevande magari chiacchierando con le tazze a portata di gocciolina, non la indossano parrucchieri e barbieri. Semplicemente, viene indossata solo dal personale sanitario e sui mezzi di trasporto pubblico.

La settimana scorsa però con la crescita del numero dei contagi è tornato anche il dibattito sulle mascherine. Infatti, alcuni sindaci di città del sud, preoccupati dal numero dei contagi, hanno chiesto di poter imporre ai propri concittadini di indossarle. Poi il problema è diventato nazionale, e ci si è domandati se la mascherina fosse necessaria, ma il fatto che sia divenuta obbligatoria nella maggior parte dei Paesi europei non ha minimamente scalfito la sicurezza sia dei politici che dei cittadini olandesi, che hanno continuato a crederla non necessaria. Dopo lunghe discussioni le mascherine sono infine divenute obbligatorie solo in alcune aeree di Rotterdam e Amsterdam.

Ecco un esempio del tipico approccio olandese nei confronti dell’estero. In una intervista radiofonica su NPO radio 1 la virologa olandese Anne Wensing ribadisce che ciò che fanno all’estero non va imitato e subito – ettipareva – fa un esempio riferendosi al nostro Paese: “Dobbiamo basarci su cosa dicono gli scienziati. Sono stata in Italia e ho visto che là la mascherina è usata come un accessorio di moda. Lavarsi le mani è la cosa più importante”. L’intervistatrice ride divertita: “Non mi stupisce che in Italia sia diventata una moda”. La virologa non ha lontanamente pensato che forse in Italia questa misura sia stata attuata su consiglio di scienziati ed esperti nel settore tanto competenti quanto i loro colleghi olandesi. E mentre insiste sul fatto che “è più importante lavarsi le mani” non le viene in mente che indossare la mascherina possa essere un modo per proteggere gli altri più che sé stessi. In sostanza, mentre in Italia guardiamo spesso con enorme stima a cosa accade all’estero e ripetiamo il mantra “Là certamente queste cose non succedono”, gli olandesi sono totalmente insensibili al fascino dell’estero.

Non pensate però che gli olandesi non siano interessati a sapere cosa avviene oltre i propri confini nazionali. Al contrario, i giornali e il principale telegiornale del Paese dedicano moltissimo spazio e attenzione agli avvenimenti esteri, molto più che in Italia, ma è l’approccio ad essere diverso. Per esempio, gli olandesi hanno seguito con preoccupazione le immagini della sfilata dei camion dell’esercito a Bergamo, mentre molto meno pathos e attenzione è stato dedicato alla situazione nel loro Paese dove ad inizio pandemia tutto era così sotto controllo che il ministro della salute si è dimesso dopo essere svenuto in Parlamento per il troppo stress. Un altro esempio è la formazione del governo Rutte IV nel 2017. Mentre il Paese è rimasto più di sei mesi senza un governo, i miei studenti mi dicevano preoccupati che la situazione politica in Italia sembrava alquanto instabile. I giornali e i telegiornali riportavano raramente notizie sulla formazione del nuovo governo – in pratica ne parlavano solo quando un partito decideva ufficialmente di sfilarsi dalla coalizione – e i cittadini hanno continuato la loro vita con la tranquillità che li contraddistingue, lo specchio della loro incrollabile fiducia in sé stessi e nel loro Stato. E su questo punto, davvero, dovremmo proprio prenderli a modello.