L’insostenibile leggerezza del lekker

Quando mi sono trasferita in Olanda vivevo già all’estero da molti anni e credevo che la cultura olandese non avrebbe mai potuto stupirmi. E invece lo shock è arrivato nel corso del primo anno, quando ero follemente assetata di informazioni sul mio nuovo Paese.

Il primo shock è arrivato quando ho scoperto che l’Olanda sostanzialmente non ha una cultura gastronomica. Dovete capire che prima ancora di prenotare una vacanza di solito, cioè prima di sapere cosa c’è da visitare, cerco di capire com’è la cucina tipica del luogo. Il punto è che sono curiosa e credo che cibo e letteratura siano la chiave per capire un popolo, così in vacanza mi piace scoprire la cultura e le tradizioni del posto in cui mi trovo. Il problema è che a parte alcuni snack fritti da mangiare come aperitivo (bitterballen, frikandellen, kroketten…), delle cialde dolci unite da uno sciroppo di zucchero e ottime da calde (stroopwafel) e le patatine fritte più buone al mondo, l’Olanda non vanta una vera e propria cucina tradizionale paragonabile a quella dei suoi vicini di casa Germania e Belgio. Ogni qual volta ho chiesto a un olandese: “Qual è il vostro principale piatto tipico?”, mi è stato risposto “lo stamppot”, che consiste in patate e cavolo schiacciati e accompagnati da un enorme salsiccione affumicato. “Sì, vabbè, ma è un piatto invernale. E in estate cosa mangiate?”, “Pizza, pasta, hamburger fatti sul barbecue…”.

Il secondo shock è arrivato in occasione di un dialogo con un ragazzo olandese a un taalcafè, un posto in cui ci si riunisce per praticare una lingua straniera e tipicamente è l’epicentro di scontri culturali ferocissimi. Stavo parlando della somma soddisfazione che provo quando trovo un buon ristorante, quando un ragazzo mi spiega che sono una pignola. A lui va bene tutto, basta che gli tolga la fame. Insisto spiegando che viviamo una volta sola, ed è bene goderci ogni aspetto della nostra esistenza su questa terra, ma lui insiste che mangiamo semplicemente per riempirci la pancia, e non c’è nulla di positivo nell’indulgere nei piaceri della gola. Alcune settimane dopo la mia insegnante di olandese mi conferma a lezione che questa è la mentalità olandese tradizionale nei confronti del cibo, ed è ispirata ai dettami della religione calvinista, che invita alla sobrietà e alla semplicità. Potete immaginarvi le facce dei miei compagni di corso francesi, italiani e spagnoli alla triste scoperta. Insomma, i mangiatori di patate di Van Gogh non le avevano fatte al forno con tanto olio, aglio, sale e rosmarino, come faremmo noi. Ma erano comunque contenti di avere del cibo in tavola.

La cultura alimentare olandese ha chiaramente un impatto sulla leggerezza con cui si giudica un piatto lekker, cioè buono. Mentre il turista inglese – me lo hanno confessato in molti – è troppo timido e gentile per lamentarsi di cosa gli è stato servito (anche se assolutamente immangiabile), il turista olandese trova tutto indifferenziatamente lekker. So che se siete ristoratori vi state fregando le mani, ma la questione non è così semplice, dovete comunque seguire delle regole se volete fare felici i vostri ospiti olandesi: mettete ingredienti “mediterranei” ovunque (olive, pomodori secchi…), fate la pizza ultrasottile ed evitate sapori troppo forti e decisi, poiché gli abitanti delle terre piatte prediligono i sapori equilibrati e delicati. Quindi, niente colatura di alici, casu marzu e pepatelli spacca dentiere!

La leggerezza del lekker è visibile ovviamente anche nei programmi TV dedicati alla cucina. Mentre i concorrenti del Masterchef italiano si sono sentiti dire: “Vuoi che muoro?”, “Cos’è ‘sto mappazzone?”, “Sembra un piatto da ospedale” e l’immancabile “Io questo non lo assaggio!”, per i giudici olandesi è sempre tutto lekker. Insomma, ci sono diverse gradazioni di lekker ma, invece di lanciare i piatti per aria minacciando i concorrenti, come fanno i giudici italiani, i giudizi qui sono comunque sempre positivi. Ovviamente gli italiani hanno approfittato di una situazione così favorevole. Nel 2018 uno dei concorrenti del programma The chef’s line era italiano. È stato divertente vedere gli altri concorrenti – bravissimi, non c’è alcun dubbio – arrancare mentre lui tirava la pasta con la disinvoltura con cui un olandese va in bici con una scala a pioli al seguito. Secondo voi chi ha vinto? Suvvia, avrebbe potuto fare una carbonara con il pollo e avrebbe vinto comunque.

La consapevolezza di non avere una grande cultura alimentare ha un impatto persino sul giudizio dei ristoranti italiani in Olanda. Mi sono talvolta scontrata con alcuni studenti, perché quella che a mio parere è la migliore pizzeria della mia città, non è gestita da italiani. “Nah, ci abito davanti, ho visto i cuochi… non sono italiani, non può essere buona!” mi hanno detto, come se fossimo geneticamente predisposti alla cucina. In un’altra occasione ero a cena in questa pizzeria/ristorante con olandesi che erano già poco convinti del posto e, quando ho ordinato una pizza, mi hanno guardata spaventati: “Prendi la pizza? Ma non sono italiani!”. Non chiedetemi perché la pizza richieda mani italiane, perché non l’ho ancora capito.

A questo punto starete pensando: “Ti stai contraddicendo!”. E invece no. Nel mio precedente post sulla cucina italiana ho scritto che gli stranieri preferiscono imparare i segreti della nostra cucina da cuochi stranieri come Jamie Oliver o Gordon Ramsey che permettono e incoraggiano la creatività, rispetto che con uno chef come Gino d’Acampo che maledice chiunque osi cambiare le sacre ricette di sua nonna. Non faccio fatica a capire le loro ragioni. Però i “veri” conoscitori della cultura e cucina italiana – e i miei studenti si ritengono tali – vogliono ristoranti gestiti da italiani. Non sanno quante pizze secche, bruciate o inzuppate di olio fatte da pizzaioli italiani mi sono trovata a mangiare in patria, immancabilmente circondata da persone che ripetevano: “Eh sì, questo pizzaiolo la fa proprio buona”.

Così si verifica uno strano fenomeno. Mentre i consumatori seriali di pizze scadenti nostrani storcono il naso davanti a qualsiasi pietanza italiana non appena oltrepassano le Alpi, gli olandesi si affidano totalmente alla provenienza del cuoco. Esprimiamo giudizi basati su tanti fattori esterni e trascuriamo l’unica fonte di informazioni davvero valida: le nostre papille gustative. Ma non potremmo, come suggeriva Jamie Oliver in The Great Italian Escape, semplicemente affidarci ai nostri sensi?

La cucina italiana. Una questione (di) grammatica

Ah, la cucina italiana. Croce e delizia degli stranieri. Amata, adorata, preferita al cibo tradizionale di qualsiasi altro Paese europeo ed esotico, eppure così misteriosa, governata da regole che tutti vorrebbero conoscere ma che nessuno riesce davvero a comprendere bene.

Il problema è che la nostra cucina ha regole intricatissime che possono essere imparate solo guardando le nostre mamme e nonne cucinare, e non sui libri. Mi è spesso stato chiesto di spiegare questa grammatica, e se già i segreti di quella vera sono talvolta imperscrutabili, i segreti di questa non sono facilmente tramandabili a lezione. Nel vedere gli sguardi dei miei studenti mentre mi fanno domande su questa religione segreta mi sembra di rivedere i dialoghi con i miei prof all’università, che rispondevano sempre così alle nostre domande: “Dal punto di vista grammaticale è corretto, ma non diciamo così”, “E come facciamo allora a sapere come dite?”, “Mah, l’unica è andare a vivere in Inghilterra e restarci almeno una decina di anni”, “Ah, ok”.

Ma quali sono questi segreti così imperscrutabili? Il dubbio più comune è: “Ma qual è la differenza tra pasta lunga e pasta corta? Quando usate l’una e quando l’altra? A me sembra tutta uguale… è pur sempre pasta”. Le spiegazioni tipicamente rimbalzano come la pizza riscaldata nel microonde: la pasta è tutta uguale, siamo noi italiani a imporre queste regole per creare confusione.

Il secondo grande mistero è la scelta degli ingredienti. Chiaramente pasta, risotto e pizza sono supporti fatti per mescolarvi dentro o scaricarvi sopra tutto il contenuto del nostro frigo. Per cui abbiamo il risotto con i fagiolini, la pasta con il pollo e il pesto, la pizza con il mais e le polpette, gli gnocchi con le cozze. Inutile spiegare che c’è una grammatica dietro alla scelta degli abbinamenti. La risposta sarà sempre la stessa: “Ma perché? È buono!”. E quest’obiezione solitamente cancella con un colpo di spugna ogni mio tentativo di spiegare la grammatica del cibo. Se è buono va bene come lo fate voi. So che in questo momento una nonna italiana si sta sentendo mancare, ma non vi è spiegazione che tenga.

Spesso gli stranieri sono interessati a imparare questa grammatica, solo che preferiscono sia mediata da qualcuno di cui possono fidarsi, qualcuno che capisca il loro punto di vista e il loro senso del gusto e che lasci ai propri studenti la libertà di esprimere la propria creatività. E allora seguono corsi di cucina tenuti da cuochi stranieri. Non che manchino cuochi italiani pieni di passione e competenze, ma i cuochi stranieri appassionati di cucina italiana sono più rassicuranti, meno legati a regole e diktat. Con loro tutto è possibile e “buono”. Se doveste scegliere una insegnante optereste per la signorina Rottermeier o per la rassicurante maestrina dalla penna rossa? Ecco, appunto.

I tipi di errori commessi da tali cuochi – perdonabili, per carità, basta che sia “buono” – sono di quattro tipi:

1) di ingredienti: la rucola sta bene sopra qualsiasi cosa, idem il salamino piccante e l’olio aromatizzato all’aglio, che è il pilastro della cucina italiana all’estero;

2) di ordine: il concetto di antipasto, primo e secondo è estraneo alle tradizioni inglesi e olandesi. Così la pasta viene servita ad ogni portata, spesso accompagnata nello stesso piatto da insalata, pesce, bistecche o altro;

3) di abbinamento: l’unica regola è abbinare tra di loro cose che ci piacciono, ogni altro accorgimento è superfluo. È possibile accompagnare ogni piatto con tè, caffè o persino caffelatte, perché l’unico principio valido è che “se due cose sono buone, staranno sicuramente bene insieme”;

4) di regioni. Lentamente il concetto di “cucina regionale” sta avanzando, ed è possibile trovare nelle grandi città inglesi e olandesi ristoranti italiani ispirati a cucine regionali. Però la maggior parte delle persone fatica persino a ricordarsi il nome del posto in cui è andata in vacanza, figuriamoci capire che mescolare un piatto del nord con uno del sud ha poco senso.

Ed ecco di seguito – copiato fedelmente da un volantino – il menù proposto da un cuoco olandese per un corso di “autentica” cucina italiana. Come antipasto lo chef propone una focaccia con vitello tonnato, seguita da una pasta alle vongole con salamino piccante e rucola. Segue una bistecca napoletana condita con sugo di pomodoro e olive, servita con verdure e polenta. Per concludere, un tiramisù estivo con limoncello e fragole marinate.

Buon appetito.