Parla come mangi

Sono una traduttrice poco pratica, e ora vi spiego perché. Sono poco pratica perché ho passato anni a studiare libri di teoria della traduzione che l’80% dei traduttori non ha mai aperto. Sono poco pratica perché adoro disquisire di questioni complesse di stili e registri invece che di tariffe. Sono poco pratica perché invece di impiegare le mie energie per trovare clienti disposti a pagarmi a peso d’oro, continuo a investire in formazione. Sono poco pratica perché rileggo sempre molte volte una traduzione e a differenza di molti colleghi non ho mai pensato di un cliente “Tanto non è in grado di capire se c’è un errore”. Sono poco pratica perché ai testi facili da tradurre – e quindi più rapidi da consegnare – preferisco quelli interessanti e stimolanti per la mia creatività, solo che richiedono molto più tempo e non sono pagata a ore. Insomma, sono davvero poco pratica, ma questa è la mia natura.

Poi ho finalmente capito che poco pratica è anche la mia lingua e la mia cultura, mentre quella olandese è estremamente efficiente. Quindi mi trovo a trasferire contenuti tra due sistemi totalmente opposti. Tradurre purtroppo non vuol sempre dire sostituire la parola brood con “pane”. È bello quando è così semplice, si finisce in fretta e ci avanza persino tempo per preparare qualcosa di buono per cena. Tradurre vuol spesso dire far comprendere un concetto a una persona appartenente a una cultura diversa dalla nostra. A volte è come convincere vostro nonno che il sushi è un cibo buono e raffinato: le possibilità di riuscita ci sono ma è dura.

Qualche giorno fa una mia amica ha tradotto un testo di teologia dall’italiano all’olandese, e la risposta dell’editore è stato che era troppo fumoso e quindi, in sostanza, che non si capiva niente. Ho già notato molte volte l’incredibile divario tra le due culture e il modo in cui influenza la comunicazione. Un tipico esempio sono le canzoni: ho spesso provato a far ascoltare ai miei studenti canzoni di cantautori italiani, e la risposta è stata quasi sempre la stessa: “Ma cosa vuol dire? Non si capisce niente!”. Così sono scesa sempre più in basso sulla scala della raffinatezza testuale, ma incontro ancora resistenze. L’ultima volta è toccato a “Per te” di Jovanotti e, arrivati a “è per te il profumo delle stelle” mi hanno fatto notare che le stelle non hanno profumo. Chiaro, Margherita Hack però sarebbe stata più clemente nei confronti di Jovanotti. Ho poi capito che gli olandesi hanno un’enorme difficoltà a capire le metafore e, in generale, discorsi fumosi che non fanno riferimento a oggetti e situazioni tangibili. Questo spiega anche perché i miei studenti chiedono sempre di ascoltare la Pausini e Ramazzotti, perché “Marco se n’è andato e non ritorna più” non lascia dubbi. Prima era qui e adesso è altrove.

L’altra enorme differenza è evidente quando spiego la grammatica. L’insegnante di inglese standard in Italia parla tranquillamente di “ausiliari” e “participio passato” a una platea di studenti il cui inglese non va oltre “the cat is on the table”, ma che hanno consumato così tanti quaderni in analisi logica e grammaticale da conoscere questi concetti meglio delle preghiere. Questo approccio non funziona con gli studenti olandesi: non hanno idea di cosa siano i verbi modali, non capiscono il concetto di passivo e non vedono alcuna differenza tra un verbo transitivo e uno intransitivo. Loro imparano meglio se tenuti all’oscuro da queste parole difficili e poco concrete: tanti esempi, le loro amate liste di parole e frasi fatte. La teoria va menzionata il meno possibile perché fa venire il mal di testa.

Questa differenza va il più delle volte a vantaggio di noi italiani, perché è più semplice imparare l’approccio pratico che fare amicizia con quello teorico. Per fare un esempio, mentre le nostre multe sono costituite da due pagine di burocratese con le uniche informazioni importanti – la cifra e le modalità di pagamento –  rigorosamente al fondo e in caratteri microscopici, le lettere dell’Agenzia delle Entrate olandese sono elementari. Sono costituite da una sola pagina con ben poche parole e la prima riga – sempre in grassetto – recita sempre “Lei deve pagare” o “Lei non deve pagare”. Non sono mai andata oltre la prima riga. Ovviamente i testi in burocratese esistono ma, mentre danno il mal di testa ai locali che non sono abituati a termini astratti e a frasi lunghe più di due righe, noi italiani li maciniamo in totale scioltezza. Ecco, noi facciamo molta più fatica a comprendere i commenti in olandese su Facebook che il burocratese. Così mentre i traduttori olandesi devono presentare ai propri committenti testi per loro illeggibili, io a volte mi faccio scrupoli per la semplicità del linguaggio, che è sempre troppo scarno e diretto per gli standard italiani, così semplice da essere quasi offensivo per i miei connazionali. Mentre quando l’olandese medio legge una traduzione dall’italiano pensa “Non si capisce niente”, l’italiano medio pensa “Ma davvero hanno scritto qualcosa di così semplice e banale?”. Ecco perché, quando possibile, il traduttore deve diventare scrittore e formulare da zero un testo pensato appositamente per il suo lettore.

La semplicità pervade anche il linguaggio orale. Ascolto spesso sia la radio italiana che quella olandese, e la mia ossessione per il linguaggio mi porta a analizzare costantemente l’eloquio di chi parla. Senza per forza arrivare ai livelli eccelsi di Oscar Giannino, che probabilmente utilizza un registro C2 anche quando racconta le barzellette, è evidente che i giornalisti italiani maneggiano con scioltezza discorsi astratti senza i quali probabilmente non riuscirebbero a esprimersi. Al confronto, i giornalisti olandesi sono immensamente più efficienti: frasi corte e di facile comprensione, zero fronzoli e anche alcune espressioni colloquiali. Mentre loro vogliono essenzialmente farsi capire dagli ascoltatori, noi percepiamo l’eleganza non come un inutile orpello ma come qualcosa di essenziale per la comprensione dell’argomento.

In sostanza la differenza tra lo stile di comunicazione olandese e quello italiano rispecchia quella tra le due cucine: una è raffinata e volta a carezzare lo spirito, l’altra è estremamente frugale e ha l’unico scopo di riempire lo stomaco, perché la raffinatezza è in Olanda sempre considerata sinonimo di inefficienza (e quindi da evitare). So che i molti italiani che vivono qui e hanno poco a che fare con la parte più tradizionale del Paese non se ne sono mai accorti, ma le mie osservazioni mi portano inesorabilmente a pensare che i Paesi Bassi per un italiano siano Marte, e viceversa. Le differenze sono così profonde che quando qualcuno mi chiede se sono diventata un po’ olandese mi viene sempre da ridere. “No” è la risposta, perché ci ho provato, ma quando ho capito la direzione che stavo prendendo sono tornata sui miei passi. Non possiamo stravolgere la nostra natura. Molto meglio camminare in equilibrio su un filo tra due culture.