La musica italiana in Olanda

Oggi mi tocca trattare di un argomento ultra-spinoso, la musica italiana che è arrivata qui in Olanda, come ci è arrivata e soprattutto perché ci è arrivata. Il problema è che temo mi scapperà qui e là qualche giudizio nei confronti di qualche artista, e nel corso degli anni ho capito che la musica crea divisioni invalicabili tra le persone, quasi come la politica. Cioè, quando confessiamo chi ci piace e chi invece ci urta i timpani è quasi come quando nella serie TV Boris Arianna svela per chi vota. Un momento coraggioso e pericoloso. Ricordiamoci che in fin dei conti si tratta solo di opinioni puramente personali.

Nei miei anni trascorsi in Olanda ho compreso che la musica italiana è solitamente poco conosciuta. Le eccezioni sono due categorie di artisti che incarnano perfettamente lo stereotipo dell’italianità: il bel canto e l’espressione di una passionalità sfrenata. Fanno parte della prima categoria cantanti come Bocelli, che gode di una fama sterminata e riempie i palazzetti a tempo di record, e Il Volo. Invece, la seconda categoria è rappresentata da Eros Ramazzotti, Laura Pausini e, in misura molto minore, Gianna Nannini e Zucchero. Non metto in dubbio che il loro successo qui sia anche dovuto alla capacità dei loro manager, ma osservando le loro canzoni vedo delle caratteristiche in comune. L’Italia è nella mentalità estera il luogo delle forti emozioni e passioni, espresse senza freni inibitori. Per questa ragione tipicamente nelle parodie veniamo spesso rappresentati come aggressivi e minacciosi o capaci di azioni incredibili per coronare un sogno d’amore. Ecco, questo atteggiamento si manifesta bene in certe canzoni a tema amoroso che iniziano in modo soft e a un certo punto, preannunciato da un crescendo, arriva l’urlo del cantante. In questo caso il bel canto, visto come la capacità tecnica di fare acuti, si fonde perfettamente con la dimostrazione della passione estrema.

Come sempre, ci sono le eccezioni che confermano la regola. La prima è “Ma quale idea” di Pino D’Angiò, che mi è toccato ascoltare abbastanza spesso alla radio, e ogni volta mi è dispiaciuto conoscere l’italiano, ma purtroppo ci vogliono anni per dimenticare una lingua, non ci si riesce in pochi minuti. Qui credo intuiscano che il protagonista della canzone è il classico macho buffo e un po’ marpione, e quindi lo stereotipo è rispettato. La seconda è “Max” di Paolo Conte, che ho sentito spesso al supermercato. In questo caso, dato che è un pezzo strumentale, a ognuno è lasciata una libera interpretazione, e quindi libero sfogo alla propria sensibilità.

Mentre ufficialmente è poca la musica italiana nota in Olanda, in realtà le nostre canzoni sono arrivate qui sotto mentite spoglie. A partire dagli anni ’90 Marco Borsato, un cantante olandese di padre italiano, ha iniziato a adattare canzoni italiane di stile sanremese e a cantarle al suo pubblico. Non so se inizialmente si fosse scordato di menzionare che le sue canzoni non erano proprio del tutto sue, o se questo dettaglio sia stato ignorato dai suoi fan, ma il risultato è che moltissime canzoni italiane ora sono qui considerate olandesi, e sono persino nate cover delle sue cover. In questo caso, per esempio, nei commenti su YouTube alcuni credono che la versione di Borsato sia quella originale, e mi è capitato spesso di far sentire canzoni sanremesi ai miei studenti e di sentirmi dire: “Ma questa è di Borsato!”.

I testi delle canzoni italiane importate non sono mai tradotti ma adattati molto liberamente. Il che vuol dire che, per esempio, mentre Cocciante adora Margherita e vorrebbe fare tutto il possibile per renderla felice perché lei è la donna della sua vita, Borsato invece non la regge più. Così è particolarmente divertente vedere Cocciante e Borsato insieme in un concerto ad Amsterdam di molti anni fa. Innanzitutto vediamo che mentre nessuno considera il povero Cocciante, appena arriva Borsato in tenuta da gelataio parte l’ovazione e il coro. Ma, dato che si alternano le strofe e ciascuno canta nella propria lingua, la povera Margherita è prima una specie di donna angelicata e poi una lunatica che sta torturando un povero innamorato. La parte strillata è equamente divisa tra i due, così da permettere a ciascuno di dare sfoggio delle capacità delle proprie corde vocali.

In altri casi l’adattamento è come quando gli chef olandesi mettono rucola e pomodori secchi ovunque: rende il sapore più stereotipato e prevedibile. Così se il testo di “A te” di Jovanotti già non partiva proprio bene (“A te che sei il mio amore grande ed il mio grande amore”, suvvia) l’adattamento di Guus Meeuwis gli dà la mazzata finale mettendo in fila le metafore più banali e consumate esistenti per descrivere i patimenti di un uomo innamorato lontano dalla donna amata. Per esempio, dice che scalerà una montagna con lei nel cuore (basta trovarne una in Olanda, dico io). Dal punto di vista musicale, ahimè, credo gli olandesi preferirebbero la cover, perché ogni volta che ho fatto ascoltare Jovanotti ho riscosso poco successo, e il commento più comune è sempre stato: “Ma questo è stonato. Non possiamo ascoltare Bocelli la prossima volta?”.  

E tutto il resto? Direte voi. Tutti quei fantastici cantautori le cui canzoni conosciamo a memoria, e che hanno interpretato alla perfezione la storia del nostro Paese e le nostre emozioni? Non piacciono e a mio parere non possono piacere. Alcuni anni fa ho provato ingenuamente a far ascoltare De André, e non è piaciuto. Quando ci siamo poi soffermati sul testo mi è stato detto che parlare di letame (la canzone in questione era “Via del Campo”) in una canzone è una gran schifezza. Subito mi sono un poco offesa e ho pensato di vendicarmi con minacce del genere: “Se la prossima settimana ancora non sapete i participi passati irregolari vi faccio ascoltare e poi tradurre Battiato”. Avrei voluto vedere le loro facce davanti a “gesuiti euclidei vestiti come dei bonzi per entrare a corte degli imperatori della dinastia dei Ming”. Poi ho capito che il mio tentativo era simile a quando a 15 anni costringevo le mie amichette invaghite dei Backstreet Boys ad ascoltare Bowie e i Pink Floyd: un fallimento preannunciato.

In sostanza, se è vero che i gusti sono personali, credo anche che siano influenzati dagli stereotipi sull’italianità, che agiscono ben prima dell’ascolto e lo influenzano. Così, il giudizio su una canzone non è determinato dal pezzo stesso, ma dalla misura in cui rispecchia le attese. L’aspetto comico è che anche se ora grazie a Spotify e alle altre piattaforme avremmo un accesso quasi illimitato alla musica internazionale, in realtà ci autolimitiamo ed escludiamo tutti gli artisti che si allontanano dalle tradizioni del proprio Paese. Di conseguenza un musicista brasiliano è condannato ad essere melancolico, uno spagnolo deve suonare la chitarra al ritmo del flamenco e un italiano parlare d’amore con metafore consumate. Tutto ciò che non riflette la nostra conoscenza stereotipata del mondo, non è degno di essere ascoltato. Evidentemente non siamo affatto disposti ad ascoltare davvero l’altro e a scoprire qualcosa di nuovo, ma ce ne stiamo ben rintanati nel nostro piccolo mondo noto.

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